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La straordinaria storia di Marcello Candia

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1La straordinaria storia di Marcello Candia, milanese, tre lauree, imprenditore di successo, ma soprattutto “gigante della carità”, del  quale è già in corso il processo di beatificazione.

L’INDUSTRIALE MISSIONARIO AMATO DA CREDENTI E ATEI

Crebbe in una ricca famiglia lombarda, educato dalla madre all’amore per i poveri – Dedicò tutto se stesso al successo della fabbrica fondata da suo padre, portandola al top in Europa -  Nel 1965,  a 60 anni, vedette tutto, e impegnò il resto della sua vita e tutte le sue ricchezze per  i più poveri tra i poveri in Amazzonia , fondando  ospedali, lebbrosari, asili, scuole che sono tuttora  in piena e ottima attività

di Renzo Allegri

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Quando lo incontrai  la prima volta, nel 1969, Marcello Candia aveva 54 anni.

Era un personaggio famoso soprattutto tra la “gente bene” di Milano. Negli anni dell’immediato dopoguerra, aveva dato prova di essere un brillante imprenditore. La sua fabbrica di acido carbonico, con sede a Milano e succursali in Toscana, Campania, Puglia e paesi esteri, era una delle principali ditte del settore a livello europeo. Poi, nel 1965, Candia aveva sbalordito tutti . Aveva deciso di vendere ogni proprietà per andare a fare il missionario laico in Amazzonia.

L’anno in cui lo conobbi, una giuria internazionale gli aveva attribuito il Premio della Bonta  “Notte di Natale”,  fondato da Angelo Motta, per esaltare un personaggio che avesse compiuto eccezionali atti umanitari. Candia era stato proclamato “l’uomo più buono dell’anno”.

2-candiaEra arrivato dall’Amazzonia per ritirare il premio, consistente in una ingente somma. Ma era impacciato e confuso. <<Macché l’uomo più buono dell’anno>>, ripeteva imbarazzato, <<io sono soltanto un povero peccatore. Sono venuto a ritirare questo premio non perché lo meriti ma perché quei soldi mi servono. Sto costruendo un grande ospedale nella foresta brasiliana, a Macapà, e i costi sono spaventosi>>.

<<Laggiù ho trovato la mia famiglia>>, mi disse Marcello Candia sottovoce, quasi imbarazzato nel dover parlare di se stesso. <<Ci sono tanti bambini abbandonati, che non hanno niente. Se non li aiutiamo noi, possono morire di fame, di malattie, di sofferenze. Dio è Padre di tutti. Ci ha insegnato che ogni uomo è nostro fratello. E io considero quei bambini abbandonati e lebbrosi come miei figli>>.

Pronunciando quelle parole, il suo volto si era aperto in un sorriso dolcissimo, che mi commosse. Non disse altro sull’argomento. Ma mi fissò dritto negli occhi, come per trasmettermi ciò che aveva nel cuore e che non avrebbero potuto esprimere con le parole.

Ci lasciammo. Nel taxi mentre tornavo alla redazione del mio giornale, riflettevo. Era una giornata nebbiosa. La città era in fermento per i preparativi del Natale. La gente entrava ed usciva dai negozi comperando regali. Tutti pensavano ai loro cari, ai figli. Candia, l’ex ricco industriale, diventato povero per amore di Dio, era là nella sua cameretta, che pensava ai suoi piccoli in Brasile. Non era sposato, non aveva figli che portavano il suo nome. Ma, sotto l’impulso di un amore grandissimo, era diventato papà di una moltitudine di bambini che non avevano niente. Un amore eccelso, il più grande che si possa incontrare. Un amore che si avvicina a quello di Dio. La sua famiglia era immensa. E la sua paternità sublime.

In seguito, ho incontrato Marcello Candia altre volte e ogni volta mi appariva sotto questo aspetto: un “papà” straordinario, sempre di corsa, sempre pieno di pensieri e di preoccupazioni perché doveva provvedere alla sua grandissima famiglia. Un padre premuroso per centinaia di bambini, di poveri, di diseredati. E così fu sempre, fino alla sua morte, avvenuta nel 1983.

La vocazione a questa sublime paternità l’aveva avuta da bambino. Era un dono di Dio. Una chiamata che il Signore riserva ai grandi spiriti, spiriti capaci di contenere un amore enorme.

Era nato in una famiglia ricca. Suo padre, Camillo, laureato in chimica, nel 1906 aveva fondato la “Fabbrica italiana di Acido Carbonico”, che fece la fortuna della famiglia. La madre di Marcello, Bice Busatto, era una donna di grande fede religiosa. Più volte Marcello mi disse che erano stati i suoi genitori a educarlo nell’amore verso gli altri. Soprattutto la madre.

3-candia-e-wojtylaQuando era bambino, la mamma lo accompagnava nelle famiglie più disagiate a portare cibo, vestiti, denaro, medicine. Durante il liceo, frequentava la “mensa dei poveri”, tenuta dai padri Cappuccini a Milano, e aiutava i frati a distribuire la minestra ai “barboni ” della città.

A 17 anni venne colpito da un gravissimo lutto. Perse la madre, che morì per una polmonite. Il dolore lo sconvolse in maniera tremenda. Entrò in una profonda crisi depressiva. Si rifiutava di mangiare, non voleva più vivere. Trascorse un anno intero in uno stato di totale apatia. Smise anche di studiare. Ma poi quel brutto periodo finì. E in ricordo della bontà della madre, decise di dedicare la sua vita agli ideali di altruismo che lei gli aveva insegnato.

Pensava di diventare missionario. Prima, però, voleva concludere gli studi, perchè era convinto che con una laurea avrebbe servito meglio i poveri.

Nel 1939 si laureò in Chimica pura e un anno dopo in Farmacia. Poi scoppiò la guerra. Il suo sogno di diventare missionario dovette così aspettare. Nel 1941 fu chiamato sotto le armi, dove rimase fino al 1943. Nel frattempo continuava a studiare e nell’ottobre del ’43 conseguì la sua terza laurea, in Scienze Biologiche. Terminata la guerra, il padre si ammalò e Marcello dovette prendere in mano la direzione della ditta.

Si buttò a capofitto in questa nuova attività. Era un organizzatore formidabile, aveva una straordinaria capacità negli affari e sotto di lui, l’azienda paterna andava a gonfie vele.

Però Marcello non aveva dimenticato i suoi ideali. In attesa di potere realizzare la sua vocazione, si dedicava ai problemi missionari in altro modo. Già nel 1946, cioè l’anno stesso in cui assunse la direzione dello stabilimento del padre, istituì l’Associazione “Laici Aiuto Missioni”, un ente che si interessava di cooperazione con i missionari. Subito dopo fondò la rivista “La Missione”, che doveva far conoscere i problemi delle missioni. E sempre in quel periodo diede vita, a Milano, al “Villaggio della Madre e del Fanciullo”, per assistere le ragazze madri. Creò anche  diversi centri di assistenza medica gratuita per i reduci dalla guerra e per i poveri, e corsi di medicina per missionari.

Nel 1950 conobbe padre Aristide Pirovano, un missionario originario di Como, che aveva fondato la missione di Macapà, in Brasile, alle foci del Rio delle Amazzoni. I due diventarono subito amici. Ascoltando i racconti del missionario, Candia cominciò a pensare seriamente di trasferirsi anche lui in Brasile. Decise che lo avrebbe fatto non appena la fabbrica fosse stata in grado di fare a meno della sua presenza.

4-candiaNel 1955, gli parve fosse giunto finalmente il momento tanto atteso. In Amazzonia era atteso dal suo amico padre Aristide Pirovano, che, proprio in quell’anno era stato nominato vescovo di Macapà.

Ma, mentre si stava preparando a dare la notizia ai suoi familiari, ecco un nuovo ostacolo. La notte del 22 ottobre 1955 il suo grande stabilimento chimico venne distrutto da un incendio. Decine di operai rischiavano di rimanere senza lavoro. Marcello capì che non poteva  abbandonare quella gente nelle difficoltà. Rimandò ancora il suo viaggio. <<Ricostruiremo tutto>>, disse agli operai <<nessuno di voi resterà senza lavoro>>.

Si mise all’opera, con quella grinta e con quella incredibile resistenza alla fatica che lo distingueva. In dieci anni, lo stabilimento ridivenne un gioiello di efficienza e modernità. Adesso poteva andare avanti da solo. E, finalmente, nel 1965 Candia vendette tutto quello che aveva e partì per il Brasile.

La sua mentalità organizzativa gli fu utile anche in missione. Praticamente continuò a fare il manager, professione che conosceva bene e nella quale aveva ormai acquistato grande esperienza. Mise tutto il suo talento e tutto il suo denaro a disposizione delle missioni, dei poveri, dei lebbrosi che intendeva servire.

Per prima cosa, si dedicò alla costruzione di un grande ospedale, al cui progetto aveva cominciato a lavorare mentre era ancora in Italia. Quell’opera resta ancora oggi il massimo complesso ospedaliero dell’Amazzonia brasiliana. Lungo 160 metri, su due piani, l’ospedale ha una capacità di 160 posti. E’ dotato di clinica medica, ostetrica, pediatrica, chirurgica, di un gabinetto dentistico, una farmacia e di cinque ambulatori con un reparto d’analisi, un laboratorio dermatologico, una biblioteca medica e una scuola per infermieri.

All’interno si trova anche un centro di ricerca per malattie tropicali e infettive, collegato con la Facoltà di Medicina di Belo Horizonte. Quindi, un centro universitario.

5-candia-paolo-viIn quell’ospedale, che lavora a pieno ritmo fin dall’inizio degli anni Settanta, vengono eseguite ogni anno migliaia e migliaia di visite mediche, di esami di laboratorio.  Le infermiere e gli infermieri usciti dalla scuola di quell’ospedale, sono ormai diffusi su tutto il territorio della regione. Essi lavorano restando in stretto collegamento con l’ospedale, che li assiste ed è pronto a intervenire nei casi di emergenza.

Oltre all’Ospedale, ci sono in Brasile altre opere realizzate direttamente da Candia e altre ancora sono sorte dopo la sua morte,  volute e gestite dalla Fondazione Marcello Candia che egli stesso costituì prima di morire proprio con lo scopo che si occupasse delle opere che aveva dato vita e di altre che risutlassero utili e necessarie per i suoi poveri.

Mentre organizzava, progettava e seguiva i lavori, Candia doveva anche preoccuparsi di trovare i soldi, non solo per la costruzione, ma anche per il funzionamento di quei centri. Marcello lavorava diciotto, venti ore al giorno. Ogni anno tornava, per alcuni mesi in Italia, per raccogliere fondi, per tenere conferenze. Si sottoponeva a sfibranti maratone alla ricerca di aiuti. E così i viaggi, i continui cambiamenti di clima, i disagi, le fatiche si fecero sentire. Marcello cominciò ad accusare disturbi al cuore. I medici gli dicevano che doveva riposarsi e lui rispondeva che i suoi poveri avevano bisogno di lui. Continuò perciò la sua attività, senza mai diminuire il ritmo frenetico. Ebbe cinque infarti. Nel 1977, fu sottoposto ad una delicatissima operazione chirurgica nel corso della quale gli vennero applicati tre by-pass. Ma neanche quell’intervento lo fermò.

Lavorava per amore di Dio e non voleva ricompense su questa terra. Nelle sedi missionarie, non voleva essere trattato con nessuna distinzione. Anche quando era molto ammalato, mangiava quello che mangiavano i suoi assistiti e non si lamentava mai. Terminata un’opera, la regalava a un istituto religioso. Non voleva avere legami con essa. Non voleva cioè esserne il “proprietario”, il “direttore”, il “responsabile”. Regalò il grande ospedale di Macapà, ai padre Camilliani, che lo nominarono, contro la sua volontà, “presidente onorario”. <<E’ un titolo che non mi piace>>, diceva, <<ma poiché il cinquanta per cento degli ammalati che vengono curati ogni anno non ha soldi per pagare e non ha assistenza sociale, io, come presidente onorario, mi impegno a coprire i loro debiti>>.

6-candiaQuando Giovanni Paolo II, nel 1980, andò in Brasile, volle visitare il lebbrosario di Mariturba, che è una delle grandi opere realizzate da Marcello Candia. Il lebbrosario era diretto da monsignor Pirovano che, durante la visita, illustrava l’opera al Papa e gli presentava i missionari e le varie autorità. Il Pontefice continuava a guardare in giro e, ad un certo momento, disse a monsignor Pirovano: <<Ma, insomma, dov’è il dottor Candia di cui ho tanto sentito parlare?>>. E allora tutti si guardarono intorno e si accorsero che Marcello Candia, l’autore di quelle belle opere a favore dei lebbrosi, non era nel gruppetto delle personalità che erano state presentate al Papa. Lo cercarono. Marcello era dietro a tutti, che conduceva la carrozzella di un lebbroso, un uomo senza mani e senza piedi, orribilmente mutilato anche nel viso. Candia aveva un ventaglio in mano e lo agitava intorno a quel povero troncone umano, per alleviare il fastidio del caldo che in quel momento raggiungeva i 45 gradi all’ombra. Il lebbroso, dato che era senza mani, non poteva usare il ventaglio. Quando il Papa li vide, capì quanto fosse grande la bontà e la delicatezza d’animo di Marcello. Gli andò incontro senza dire una parola per la commozione. Lo abbracciò e gli diede un bacio sulla fronte.

<<Il povero più povero è colui che non riesce a farsi ascoltare da nessuno>>, mi disse un giorno Marcello Candia. <<Quando sono andato in Amazzonia, con molti soldi e grandi capacità organizzative, pensavo che il più grande regalo che potevo fare ai poveri fosse appunto il denaro e la mia professionalità. Poi mi sono accorto che c’è qualcosa che vale di più: è il dono del tuo tempo, della tua attenzione alle persone, della tua amicizia, perché in questo modo non dai “del tuo”, ma “dai te stesso”. Quello che vogliono i poveri non è solamente cibo, assistenza, aiuti materiali. Desiderano soprattutto comprensione, fraternità, essere ascoltati>>.

Marcello dormiva pochissimo: quattro, cinque ore al massimo. Al mattino si alzava alle cinque e trascorreva alcune ore in chiesa, a pregare e a meditare. Benché fosse un laico, dedicava alla preghiera molte ore al giorno.

Una suora, sua collaboratrice, mi disse: <<Marcello parlava di Dio come di una persona che conosceva bene e incontrava tutti i giorni>>. Nelle difficoltà più gravi, prima di prendere una decisione particolarmente importante, spariva per alcuni minuti. I suoi collaboratori sapevano che si ritirava a pregare. La sua fiducia in Dio era totale. La sua fede era simile a quella che un bambino ripone nel padre.

7-candia-con-pertiniLa sua grandezza spirituale, l’autenticità della sua fede profonda sono balzate in evidenza al momento della prova suprema, quando ha saputo che doveva morire. Marcello seppe di avere un cancro nel 1981, cioè due anni prima di morire. I medici gli dissero la verità, ma egli volle continuare a vivere come sempre, senza parlare con nessuno della sua malattia. Solo nell’agosto del 1982 si confidò con suor Giovanna, una sua collaboratrice, raccomandandole però il segreto più assoluto. <<Se il Signore mi vuole prendere>>, disse <<continuerà lui le mie opere. Io intanto lavorerò come se dovessi vivere per sempre>>.

Ha continuato la sua missione, spostandosi da un luogo all’altro, tra sofferenze incredibili fino a venti giorni prima della fine. Da tempo non riusciva a mangiare e a bere. Vomitava tutto. Si reggeva in piedi con la volontà. Quando si rese conto che tutto era finito, prese l’aereo e tornò in Italia. Fece un viaggio allucinante. Giunto a Parigi, dovette essere condotto al pronto soccorso. Volevano trattenerlo, ma ripartì. A Milano venne ricoverato nella clinica Poi X, dove trascorse gli ultimi venti giorni della sua vita.

E’ morto proprio come un santo. Il cancro al fegato provocava dolori tremendi, ma egli sopportava tutto senza mai lamentarsi. Gli infermieri, i medici non riuscivano a rendersi conto come facesse a resistere senza gridare, urlare, disperarsi. Al suo amico, don Peppino Orsini, che era il suo direttore spirituale confidò: <<Oggi Gesù mi ha fatto vivere l’esperienza più bella della mia vita e mi ha fatto capire che non è sufficiente pregare il Signore: più importante è accettare con umiltà e disponibilità il dolore, come e quando Dio lo permette. Sapevo che esisteva il dolore, ma nella mia ignoranza e nella mia vanità non l’avevo mai vissuto veramente: accettare la sofferenza come Dio la manda, accettarla con gioia, perchè il Signore la dà soltanto per il nostro bene, è la cosa più bella e più importante>>.

8-candia-biografiaSul suo letto di dolore pregava continuamente. Pensava però alle sue opere in Brasile. Pochi giorni prima di andarsene, disse a un amico: <<Se il Signore mi chiedesse consiglio, gli direi di lasciarmi qui ancora per un po’. Avrei tante cose da fare. Ma se egli mi chiama, sono pronto a spegnere la luce>>.

Morì mercoledì 31 agosto 1983, alle 17.30.

Il 12 gennaio 1991,  il Cardinale Carlo Maria Martini, arvivescovo di Milano, aprì il processo diocesano per la causa di canonizzazione di  Marcello Candia, che si è concluso  l’8 febbraio 1994. E’ ancora  in corso la seconda fase del processo, quella presso la Congregazione dei Santi in Vaticano.

Renzo Allegri

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Ma Verdi e Wagner, credevano in Dio?

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05-tallone-con-lavvocato-alberto-bagattiniIl  22 maggio scorso sono stati ricordati i 200 anni della nascita di Riccardo Wagner; il 10 ottobre ricorrono i 200 anni della nascita di Giuseppe Verdi: nel corso di questo grande bicentenario, critici, storici e musicologi hanno affrontato, in centinaia di pubblicazioni, tutti i vari aspetti della vita e dell’arte dei due  giganti del melodramma, trascurando, però,  il loro rapporto nei confronti del soprannaturale.

MA VERDI E WAGNER, CREDEVANO IN DIO?

 

Di Renzo Allegri

 

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Questo interrogativo è certamente ritenuto inutile da molti. Ma non per chi ha delle persone un’idea immortale, nel senso che crede “nella vita eterna” come  insegna il Cristianesimo.   Giuseppe Verdi e  Richard Wagner, durante la loro esistenza in questo mondo, sono stati  i due massimi rappresentanti del teatro in musica. Le loro opere  sono state le più amate dal pubblico e le più rappresentate. E questi due grandi artisti sono tuttora due persone “viventi”. Viventi in un “altrove” che “fisicamente” ci sfugge. E,  attraverso i loro capolavori, continuano a trasmettere i valori nei quali hanno creduto.

Capolavori wagneriani come “Tannhauser”, “Lohengrin”, “L’anello del Nibelungo”, “Tristano e Isotta,”, “I maestri cantori di Norimberga”, “Parsifal”, eccetera; e capolavori verdiani come “Nabucco”, “Trovatore”, “Traviata”, Rigoletto”, “Vespri siciliani”,  “Simon Boccanegra”, “Ballo in maschera”, “Don Carlos”, “Forza del destino”, “Aida”,  “Otello”,  “Falstaff”  eccetera, sono patrimonio della cultura mondiale, sempre presenti nelle stagioni teatrali più importanti, scelti dalla case discografiche per nuove  incisioni, diffusi con ogni mezzo, e continuano a suscitare emozioni, riflessioni, cioè a trasmettere quei valori nei quali, durante il corso della loro esperienza terrena, i due autori hanno creduto.

E’, perciò, perfettamente logico interrogarsi e approfondire quei valori.  Soprattutto perché l’intera produzione artistica di Verdi e Wagner è pervasa  da tematiche che si richiamano ai valori  spirituali cristiani.  Magari non sempre affrontati direttamente,  ma  tenuti come “sfondo costante” delle storie che hanno musicato, nelle quali si rispecchia la vita dell’umanità nella sua visione biblica,  con le lotte tra il Bene e il Male e dove, alla fine, sempre primeggia il Bene e l’apertura verso quei valori eterni, che “impregnano” la coscienza dell’uomo.  Forse in nessun altro compositore come in questi due è sempre presente il destino ultimo della vita, e, attraverso le vicende dei vari protagonisti, quello dell’umanità nel suo complesso.

E’, quindi, perfettamente lecito formulare anche domande che superano l’estetica e la stessa arte perché riguardano la “realtà immutabile”.  Wagner e Verdi erano credenti?  Quale idea avevano della vita, della vita oltre la vita, del soprannaturale, di Dio?

E’ difficile dare una risposta. I due musicisti sono vissuti nell’Ottocento, secolo nel quale quasi tutti gli artisti e gli intellettuali amavano mostrarsi, in pubblico, seguaci della moda imperante, e cioè scettici e materialisti.  Wagner viene abitualmente descritto come un egocentrico, superbo, invidioso, avido, antisemita, cultore della razza, precursore del nazismo, del comunismo. Apparentemente, una persona molto lontana dalla tematiche religiose.

01_verdi-nel-1880Verdi, soprattutto in Italia, è stato usato come emblema dell’anticlericalismo, ateo, avaro, avido, misantropo. Giuseppina  Strepponi, grande cantante e sua seconda moglie, in una lettera del 1872 scriveva a un amico: <<Verdi è una perla d’onest’uomo, capisce e sente ogni delicato ed elevato sentimento, ma con tutto ciò questo brigante si permette d’essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e ciò con una ostinazione ed un calma da bastonarlo. Io ho un bel parlargli delle meraviglie del cielo, della terra, del mare, ecc. ecc. Mi ride in faccia e mi gela in mezzo del mio entusiasmo tutto divino col dirmi: siete matti! e sfortunatamente lo dice in buona fede».

Ma, se si analizza con serenità e senza pregiudizi l’esistenza di questi due artisti, si trova che non erano affatto come abitualmente vengono descritti. Sotto un’apparenza esteriore, usata forse anche come difesa dalla propria privacy, nascondevano uno spirito ricco proprio di quei valori che esaltavano nelle loro opere.

In genere, nella vita delle persone contano molto le radici. Cioè, “la qualità” delle esperienze che fanno all’inizio della loro esistenza. I valori e i principi che vengono assimilati negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, difficilmente vanno perduti.

Richard Wagner apparteneva a una famiglia di media cultura. Ultimo di otto fratelli, non conobbe il padre che morì lo stesso anno della sua nascita. Fu allevato dalla madre, che aveva ricevuto un’ottima educazione in un importante collegio di Lipsia. Rimasta vedova ancora in giovane età, si risposò e Richard, a sei anni, venne mandato in pensione da un pastore  protestante, di nome Wetzel, che abitava in campagna, a Dresda. Era un uomo colto, che trasmise al piccolo Richard  solidi valori religiosi e anche un grande  amore per la storia e per la mitologia.

Nel 1827, quando aveva 14 anni, Richard Wagner fece un’esperienza che segnò profondamente la sua vita. Ricevette la Prima Comunione. E  fu sconvolto da quel rito. Non solo per il suo intrinseco significato religioso, ma per tutto un insieme di circostanze che impressionarono enormemente la fantasia e la sensibilità del futuro artista. La penombra della chiesa, gli odori della cera e dell’incenso, la varie fasi della cerimonia, il simbolismo in esse contenuto,  il suono dell’organo, i canti corali della gente, tutto questo insieme provocò in lui uno stato di esaltazione mistica profondissimo, che lo tenne in agitazione per giorni, e che non dimenticò per il resto della vita. Quell’esperienza significava per il ragazzo la scoperta di un mondo invisibile, inspiegabile, irrazionale anche, ma estremamente affascinante, che rimase  nel Wagner adulto un punto di riferimento assoluto.

02-wagnerQualche anno dopo, Wagner andò a studiare in una celebre istituzione di Lipsia, la Thomasschule, Scuola di San Tommaso, fondata dai Padri Agostiniani nel 1212 e che,  dal 1723 al 1750 era stata diretta Johann Sebastian Bach. Cento anni dopo, all’arrivo del giovane Wagner, il direttore e  principale insegnante di musica della Thomasschule era il maestro Christian Theodor Weinlig, uomo di forti principi religiosi, che aveva in Bach il suo mito, e che aveva studiato musica a Bologna, sotto la guida dell’abate Stanislao Mattei, a sua volta allievo del celeberrimo Padre Giovanni Battista Martini.

Wagner aveva 18 anni. Aveva conclusi gli studi secondari, e voleva dedicarsi soprattutto  alla musica. Ma non era affidabile. La sua vita privata era disordinata. Aveva la passione del gioco, si ubriacava, trascorreva le notti nei bagordi.

Tutto questo era inaccettabile per il severo maestro Weinlig, che, dopo pochi mesi, indignato, decise di cacciare Wagner dall’Istituto.  Ma dentro il cuore di Wagner “dissipato”, viveva ancora la fiamma dell’esperienza mistica della Prima Comunione con le emozioni che aveva provocato, e fu quel ricordo a salvarlo. Si rese conto della propria vita dissipata. Si pentì, andò dal maestro Weinlig a chiedere perdono promettendo di cambiar condotta e di studiare seriamente. Il maestro Weinlig sospese il provvedimento di espulsione. Wagner mantenne le promesse e divenne uno dei migliori allievi, il prediletto di Weinlig e iniziò lì la sua grande e vera carriera di musicista.

La struttura interiore di Wagner era  quindi solida e ancorata a quelle esperienze spirituali di tipo mistico che aveva fatto da ragazzo. Esperienze che furono sempre presenti nella sua attività di compositore.

Le tematiche di fondo che si trovano nelle sue opere, sia pure espresse attraverso un sincretismo mitologico a volte esasperato, richiamano i principi fondamentali del “sacro”, del “mistero”, del “divino”, il “tema della redenzione”,  “dell’amore che salva attraverso il sacrificio”, le figure di Gesù e di Maria, spesso citate, il tema del Graal .

Tutta l’opera di Wagner è un rito, teso alla realizzazione di uno spettacolo in cui la musica non deve essere più importante della religione, dell’arte, della filosofia, della vita. E queste tematiche sono ribadite ed esaltate soprattutto nel suo ultimo capolavoro, il Parsifal,  suo testamento, dramma mistico per eccellenza, carico di esplicite e forti allusioni religiose, contrapposte allo sviluppo tecnologico della sua epoca positivistica. Per questo  fu attaccato da alcuni intellettuali del suo tempo, come Nietzsche che accusò Wagner di essersi “accasciato ai piedi della croce”.

La parabola artistica di Giuseppe Verdi è tutta diversa, ma porta alle stesse conclusioni.  Verdi apparteneva al popolo più umile, quello dei contadini. La passione per la musica era in lui istintiva, e si sviluppò da sola. Il Verdi bambino iniziò a suonare su una vecchia spinetta, apprese i primi rudimenti della musica dal parroco del paese, che gli permetteva di strimpellare l’organo. E la sua formazione ideologica e religiosa, ricevuta in quell’ambiente povero ma sano, fu  assolutamente solida.

Come musicista, Verdi fu “allievo” del popolo della sua terra. Era nato in una piccola frazione di Busseto, in provincia di Parma. La frazione si chiamava e si chiama “Le Roncole”: poche case, la chiesa e il cimitero. Un centinaio di abitanti, tutti contadini, ma con un grande amore per la musica, quella semplice, tradizionale.

Verdi nacque con un immenso amore per quella musica, che si sviluppò spontaneamente e crebbe  alimentato da ciò che vedeva e sentiva dalla sua gente.  Quindi, niente alta istruzione, niente scuole specializzate,  niente letture particolari, niente frequentazioni di artisti celebri. Solo istinto, doti naturali, che si facevano strada da sole.

03-bachA 19 anni, Verdi andò a Milano per sostenere un esame che gli avrebbe permesso di entrare al Conservatorio. Ma venne bocciato.  Tutte le strade tradizionali che portano un giovane ad apprendere le tecniche di un’arte  per la quale si sentiva portato,  furono negate a Verdi.  E quando, per una serie di fortunate circostanze, potè comporre un’opera  per un teatro importante, la Scala di Milano, il suo genio naturale esplose con il fragore di una bomba.  Ma subito il destino avverso si accanì contro di lui.  Mentre stava componendo la seconda opera che il Teatro  alla Scala gli aveva commissionato, fu colpito da una serie di tremende disgrazie: nello spazio di un breve tempo,  gli morirono, uno dopo l’altro, i due figli piccoli e poi la giovane moglie. Voleva morire anche lui. Per due anni visse come un barbone disperato. Poi, di nuovo la fortuna, la composizione di quel “Nabucco”, opera immortale che ancora viene eseguita nei teatri di tutto il mondo. Ed iniziò la grande,  immensa carriera.

Giuseppe Verdi è diventato il genio che tutti lodano e ammirano. Le sue opere, a differenza di quella di Wagner, si ispirano alla cronaca, alle vicende storiche, alla vita quotidiana. Niente ideologie, studi mitologici, simbolismi, leggende. E niente tematiche religiose esplicite. Eppure, i personaggi delle sue opere sono tutti guidati da un senso religioso pratico di grande potenza.

E in certe circostanze della sua vita, Verdi affrontò direttamente anche la musica sacra. Lo fece nel 1874 con la “Messa di Requiem”, per ricordare la morte di un uomo che egli ammirava moltissimo: Alessandro Manzoni, grande scrittore e grande cristiano. Il “Requiem” è un’opera che viene definita “un vero trattato teologico”. Permise a Verdi di riflettere sui  problemi di fede, e di affermare concretamente ed esplicitamente le proprie profonde convinzioni religiose. Cosa che fece anche in altre importanti opere di musica sacra: lo “Stabat Mater”, composto nel 1897, quattro anni prima della morte. E in particolare il “Te Deum”, inno sacro monumentale, il suo addio alla vita,  un susseguirsi di situazioni, come egli stesso scrisse,  esultanza, contemplazione del Cristo incarnato,  invocazione della  sua misericordia e, infine, quel grido “In te, Domine, speravi”,  affidato a una sola voce di soprano  alla quale si unisce poi  tutto il coro in un crescendo strapotente: “una richiesta dello stesso Verdi di avere speranza e luce nell’ultimo tratto della sua vita”, come disse Benedetto XVI dopo aver ascoltato l’esecuzione di questo “Te Deum” nell’Aula Paolo VI, in Vaticano, nel maggio dello scorso anno, diretto da Riccardo Muti.  Verdi era così legato a quel “Te Deum” da lasciare scritto, nelle sue disposizioni testamentarie, che la partitura manoscritta fosse posta nel feretro sotto il suo capo. Era forse il suo modo di dire “grazie” a Dio, per tutto quello che da Dio  egli aveva ricevuto.

<< E’ quasi impossibile pensare che un vero grande musicista sia ateo>>, mi disse un giorno  Cesare Augusto Tallone, mitico liutaio, amico di D’Annuncio, Toscanini, Benedetti Michelangeli, inventore di un pianoforte che porta il suo nome e che è il primo pianoforte italiano gran coda da concerto.  Avevamo ascoltato insieme un giovane pianista che il quel momento godeva di grandissima fama e che era molto amico di Tallone. Al termine del concerto, mi sembrava che il vecchio Tallone fosse perplesso. . <<Non le piace?>>, chiesi.   <<E’ un grande tecnico>>, rispose deciso << ma non sarà mai un grande artista>>.    <<Perché?>>, domandai meravigliato.  <<Perché non crede in Dio>>, sentenziò.

06-rachmaninovGiudicai quella frase eccessiva. Ma, riflettendo, in seguito, capii  quale senso voleva dare Tallone a quella sua affermazione.  La fede è una enorme apertura verso un mondo che sfugge alla fredda  razionalità. Credere in Dio, comporta avere, della vita e del creato, una visione senza confini, senza barriere. <<E’ come avere  una finestra aperta sull’infinito>>, mi disse Tallone. << L’ateo materialista è limitato, ha confini. La sua creatività è prigioniera dello spazio e del tempo. Non decolla verso l’infinito>>.

Dopo un breve silenzio, il vecchio Tallone, quasi a voler spiegare meglio il suo concetto,  aggiunse enigmatico: <<Johan Sebastian  Bach, il più grande genio musicale della storia, iniziava la scrittura delle proprie pagine musicali con due J. J., che rappresentavano una sua semplice e spontanea preghiera: “Jesus Juva” (Gesù aiutami).  Tutte le partiture di Joseph Haydn, altro gigante della musica,  portano nell’intestazione le parole “In nomine Domini” (nel nome del Signore), oppure “Soli Deo gloria”, (Solo per la gloria di Dio) e alla fine scriveva: “Laus Deo” (Sia lode a Dio) .  Nella sua biografia, Charly Chaplin racconta di aver invitato una sera a casa sua per una cena alcuni amici: il pianista e compositore russo Sergei Vasilievich Rachmaninov , il direttore d’orchestra John Barbirolli, il pianista russo americano Vladirmir Horowitz, con sua moglie Wanda Toscanini. Parlando, qualcuno portò il discorso sulla religione. Chaplin disse  di non essere credente.  Rachmaninov, meravigliato, replicò: “Ma come: può esservi forse arte senza religione?”>>.

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Renzo Allegri


Episodio sconosciuto di Franco Corelli

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1-primo-piano-di-franco-corelli-don-jose-in-carmenUn episodio sconosciuto di  Franco Corelli, il celeberrimo tenore italiano del quale ricorrono 10 anni della morte.

AVEVA UNA GRANDE AMMIRAZIONE PER UN VECCHIO COLLEGA  DIMENTICATO

di Renzo Allegri

LA MUSICA DI FRANCO CORELLI SU AMAZON.IT

Il 29 ottobre di dieci anni fa moriva, a Milano,  Franco Corelli, uno dei più grandi tenori di tutti i tempi.  Era nato ad Ancora, l’8 aprile 1921.

I giovani forse non lo ricordano.  Anche perchè la Musica lirica, patrimonio eccelso del nostro Paese e dell’umanità, è trascurata dai media. Ma Corelli fa parte di quella schiera di leggendari interpreti italiani, come  Enrico Caruso, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Luciano Pavarotti, Maria Callas, Renata Tebaldi, Giulietta Simionato e tanti altri, che hanno fatto la storia del Belcanto. I loro nomi sono magici, conosciuti in tutto il mondo. Pronunciandoli, suscitano ricordi, emozioni, sorrisi di simpatia, perfino se ci si trova in nazioni lontanissime dalla nostra cultura, come il Giappone, la Cina, la Corea.

2-franco-corelli-con-maria-callas-nel-pirata-alla-scala-nel-1961La natura aveva dotato Corelli di un mezzo vocale straordinario. Ma egli non si era adagiato su quel dono. Ha faticato tutta la vita per migliorarne l’efficienza e per renderlo duttile al servizio delle creazioni dei sommi compositori, raggiungendo traguardi di perfezione assoluta.

I critici lo avevano definito “il principe dei tenori”.

Ma nonostante la fama leggendaria, Corelli visse  sempre come una persona qualunque. Nessuna esibizione di grandezza, nessun atteggiamento divistico, nessuna eccentricità.  Nel 1958 aveva sposato una cantante lirica, Loreta Di Lelio, che, dopo il matrimonio, aveva immediatamente abbandonato la carriera per stare sempre accanto al marito. Non ebbero figli e Loretta dedicò ogni attimo della sua esistenza al marito. Fu la sua consigliera più preziosa, il suo sostegno psicologico e morale più forte nelle difficoltà. Vissero serenamente inseparabili. E ora anche Loretta se ne è andata silenziosamente nel gennaio scorso.

La grandezza artistica di Corelli è fortunatamente affidata alla incisioni discografiche, che sono molte e tutte straordinarie. Ascoltandole, ci si rende conto che era veramente un grandissimo interprete.

3-franco-corelli-con-giulietta-simionato-nella-carmen-alla-fenice-di-venezia-nel-1956Della sua vita privata si conosce poco. Conduceva un’esistenza estremamente riservata. Un giorno, accettando di parlarmi di se stesso, mi disse: <<Da quando ho cominciato questa carriera, la mia vita è diventata un po’ strana. Vivo in funzione della mia voce. Devo impormi molti sacrifici. Anche quando non lavoro, continuo a condurre una esistenza ritiratissima. Sto con mia moglie. Andiamo a mangiare in qualche ristorante caratteristico perché Loretta è una appassionata ed esperta di cucina. Non frequentiamo night, prime di cinema, cocktail, party. Abbiamo pochissimi amici, forse quattro, cinque. Amo molto fare passeggiate tra il verde, in montagna, possibilmente in mezzo al silenzio assoluto. Leggo libri e ascolto musica classica>>.

In un’altra occasione, aggiunse: << Da quando ho cominciato questa professione, la mia vita è un inferno. Per mantenermi al livello che ho raggiunto, devo lottare continuamente. Ogni giorno faccio alcune ore di vocalizzi per tenere in esercizio la voce. Faccio inoltre un certo numero di esercizi ginnici per mantenere il fiato lungo e possente. Parlo il meno possibile, evito di mangiare certi cibi, non bevo alcool e non fumo, evito l’aria fredda della sera, i luoghi umidi, gli spifferi d’aria in albergo, al ristorante, in macchina: la voce umana e delicatis¬sima e una piccola disattenzione può far saltare un’opera>>.

Aveva un profondissimo senso del dovere. Mai cancellato una recita. Mai arrivato in palcoscenico poco preparato. Mai creato polemiche, difficoltà, incomprensioni.

Desidero ricordarlo raccontando un episodio assolutamente inedito della vita di Corelli: il suo incontro con un altro grande tenore veronese del passato, Giuseppe Lugo. Episodio sconosciuto perché fui io stesso a combinare quell’incontro e non l’ho mai raccontato. Episodio che documenta la profonda umanità di questo artista geniale e generoso.

E4-corelli-e-bepira l’estate del 1972.  Franco Corelli era a Verona, impegnato in due opere, “Ernani” e “Aida”, al Festival lirico dell’Arena di Verona. Era nel pieno della sua grandezza artistica e della sua popolarità.  Alto un metro e ottantaquattro centimetri, fisico atletico, asciutto, volto espressivo da attore del cinema, quando usciva dall’albergo era seguito dagli sguardi ammirati di tutti. Il suo incedere era regale, e nessuno osava avvicinarlo. Passava tra la gente bello come un dio greco.

Gli avevo telefonato e avevo preso un appuntamento per un’intervista.

Nei pressi di Verona, e precisamente Custoza, una ventina di chilometri dalla città, in collina, tra il verde, c’era una trattoria che si chiamava “Villa Vento”, dove si mangiava molto bene. Ci andavo spesso perché era tenuta da un ex tenore, Giuseppe Lugo, conosciuto da tutti come “Bepi”, amatissimo dalla gente che raccontava le sue leggendarie imprese canore all’Arena.

Bepi aveva allora 73 anni. Non era in buone condizioni fisiche e tanto meno economiche. La sua carriera artistica era stata breve e aveva avuto dei dissesti che gli avevano fatto perdere una autentica fortuna economica.   Quando andavo a pranzo da lui, veniva sempre al mio tavolo e accennava ai suoi trionfi passati, ma sempre con molta discrezione. In pratica, io che lo frequentavo, non sapevo quasi niente della sua vita e della sua carriera.

Quel giorno, mentre pranzavo, gli dissi che ero a Verona per una intervista con il tenore Franco Corelli. Come pronunciai quel nome, vidi gli occhi del vecchio diventare lucidi e una smorfia del viso mi fece capire che si era commosso.

6-giuseppe-lugo-1972<<Lo conosce?>>, chiesi.

<<E’ un grande>>, disse lui alzandosi dalla sedia e andando verso il banco quasi a voler nascondere la commozione che quel nome gli aveva provocato. Poi, sottovoce, aggiunse:  <<Mi piacerebbe molto conoscerlo>>.

<<Se vuole lo porto qui a pranzo, domani>>,  dissi.

<<Magari>>, rispose laconico.  In genere era molto loquace. Soprattutto quando si parlava di lirica. Invece, si era chiuso in uno strano silenzio. Avevo capito che quel nome aveva risvegliato in lui vecchi ricordi. Gli sarebbe piacito incontrare quel “grande”, ma forse aveva pensato che lui, essendo vecchio e dimenticato, non avrebbe mai avuto quel privilegio.

A mia volta, mi ero subito pentito anch’io di avergli fatto quella mezza promessa. Riflettendo sul fatto che Corelli era l’idolo delle folle, ma che se ne stava chiuso in albergo perché ritroso, timido, impaciato sempre di fronte all’entusiasmo della gente, forse non avrebbe mai accettato di venire a pranzo in una trattoria in campagna per salutare un vecchio tenore del passato. E quindi per Lugo sarebbe stata una nuova amarezza. Ma la commozione che avevo visto negli occhi di Bepi mi spinse a osare.

Il giorno dopo ne parlai a Corelli. Presi il discorso alla larga. Gli dissi che si poteva andare a mangiare fuori città, in un luogo fresco, in collina, tra il verde, poco frequentato, ma dove il cibo era sano e molto buono. E alla fine aggiunsi: <<La trattoria  è tenuta da un ex tenore, famoso negli Anni Trenta>>.

<<Come si chiama?>>, chiese Corelli.

<<Bepi Lugo>>, dissi.

<<7-corelli-lugo-e-lorettaGiuseppe Lugo>>, ripetè Corelli pronunciando adagio quel nome, quasi a voler correggere la familiarità disinvolta con cui io lo avevo pronunciato. <<Giuseppe Lugo, un grande tenore>>, aggiunse. <<Veramente grande artista e sarebbe un onore per me conoscerlo>>.

Rimasi stupito. Non pensavo che Corelli lo conoscesse, e in modo tale da pronunciare quella frase incredibile: “Sarebbe un onore per me conoscerlo”. Combinammo per il giorno successivo, a pranzo.

Ora ero diventato curioso. Molto curioso.  L’interesse di Corelli era stato un campanello d’allarme. Decisi di informarmi bene sul tenore Giuseppe Lugo.

Andai a trovare un mio amico, un bravissimo poeta dialettale veronese, Giovanni Recchi, che era anche appassionato di lirica. Conosceva bene la storia di Giuseppe Lugo. Mi disse che Lugo era una grande gloria di Verona. Un vero mito per i veronesi. Era nato a Rosolotti di San Giorgio in Salice, frazione di Sona, importante centro agricolo veronese dalla parti del lago di Garda. Era figlio di povera gente.  Aveva avuto una infanzia infelice perché rimasto orfano di madre. Ancora ragazzino era andato a lavorare a Milano. Aveva fatto il soldato nella prima guerra mondiale e poi era emigrato in Belgio a fare il minatore. Amava la lirica e aveva una bella voce. Cantando con gli amici nel caffè che il sabato sera frequentava a Charleroi, attirava  gente. Al punto che a volte, sulla strada di fronte al caffè si formava una folla di curiosi così numerosa da bloccare il traffico e doveva intervenire la polizia.

Fu ascoltato per caso dal direttore di un coro locale, che si offrì di darli lezioni di musica gratis. Continuò a fare il minatore, ma alcuni anni dopo vinse un concorso lirico al “Théâtre national de l’Opéra-Comique” di Parigi e  debuttò come Cavaradossi nella “Tosca”. Fu un trionfo. I giornali lo definirono  “il nuovo Gigli”. Iniziò una carriera strepitosa in Francia, in Belgio e poi anche in Italia. All’Arena di Verona, cioè in casa,  ottenne trionfi memorabili nel 1936, ‘37, ‘38 e ‘39.  Nel dopoguerra, si era dato al cinema, ma  era caduto in mano a una banda di malviventi che lo avevano convinto a finanziare un film sulla propria vita, ma poi erano fuggiti con i soldi senza aver girato neppure una scena. Lugo in quell’occasione aveva perso una fortuna. Il poeta Recchi mi disse anche che la trattoria di Lugo, a Custoza, si chiamava “Villa Vento”, in ricordo di una canzone, “Vento”, che era stata un cavallo di battaglia del tenore. L’aveva incisa in disco ottenendo un successo strepitoso. E sull’onda di quel successo, nel 1939, era stato protagonista di un film dal titolo “La mia canzone al vento”, diretto da Guido Brignone, regista tra i più noti del suo tempo, e che, nel 1934, era stato il primo regista italiano a vincere il massimo premio alla Mostra Cinematografica di Venezia.

Insomma, quel mio amico mi raccontò una storia fantastica che non  conoscevo, e che invece Corelli doveva conoscere, visto con quale entusiasmo aveva accettato di venire a pranzo da Giuseppe Lugo.

8-franco-corelli-con-giuseppe-lugo-nel-giardino-di-villa-vento-nel-1972La scena dell’incontro, il giorno dopo, tra Corelli e Lugo, è ancora  indelebile dentro di me. Bepi piangeva, e Corelli era  incantato davanti a quel vecchio commosso fino alle lacrime. Con noi c’erano la moglie di Franco, Loretta, e Bruno Tosi che curava le pubbliche relazioni di Corelli. Eravamo andati per pranzare. Noi tre abbiamo mangiato e bene; loro due, Franco e Bepi, non hanno fatto altro che parlare. Se ne stavano seduti in giardino, tra il verde. Parlavano di lirica, di opere liriche, di interpretazioni. Corelli, come uno scolaretto, chiedeva, con curiosità. Chiedeva informazioni su particolari passaggi difficili in certe romanze famose, e chiedeva come Lugo facesse a prendere con precisione e estrema spontaneità certe note difficili, dimostrando di conoscere tutto del vecchio tenore e di avere ascoltato bene le sue incisioni. E Lugo raccontava. Era frastornato dalla gioia di sentirsi apprezzato da quel grande artista. Il suo viso, in genere sempre triste, era diventato luminoso come quello di un santo. Il vecchio Bepi parlava, parlava, era come se fosse tornato indietro di mezzo secolo. E sul viso di Franco Corelli leggevano una profonda e segreta soddisfazione di essere riuscito a dare gioia a quel suo vecchio collega.

Abbiamo trascorso tutto il pomeriggio a “Villa Vento”. Io, che non sono un fotografo, ho scattato delle immagini ricordo. Immagini che sono diventate foto storiche, soprattutto perché Loretta, la moglie di Corelli, che mai si faceva fotografare accanto al marito, presa dell’entusiasmo e dalla commozione anche lei, ha posato con Franco e Lugo. Credo siano le uniche foto in cui si vede Loretta con Corelli.

Renzo Allegri

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Franco Corelli – Giacomo Puccini by midu92


Campioni di successo e di umanità

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6-federico-faggin-centro-intelcorp_medalla-nacional-800x531E’ nata negli Stati Uniti una straordinaria iniziativa che  si propone di celebrare ogni anno “l’eccellenza italiana del terzo millennio” 

Il 22 novembre, la presentazione ufficiale

Di Renzo Allegri

“PrimiDiecy Society”: si chiama così una nuova e ammirevole iniziativa italiana nata negli Stati Uniti e che  avrà la sua presentazione al pubblico internazionale il 22 novembre a New York.  Si tratta di una specie di premio che ha lo scopo di celebrare “l’eccellenza italiana del terzo millennio”.  Ogni anno, una speciale giuria di esperti seleziona  dieci italiani, che vivono e lavorano negli Stati Uniti, e li proclama “Primi”,  cioè “Eccellenze”,  “Esempi” da onorare, esaltare e imitare. Esempi soprattutto per le giovani generazioni perchè  “si sono fatti da soli”, e si sono affermati in America e nel mondo con straordinari successi professionali uniti a grandi doti umane, onorando così la patria lontana e portando un fondamentale contributo al Paese in cui attualmente risiedono.

Ma la nuova iniziativa non si ferma alla proclamazione e alla premiazione di questi personaggi. Li vuole utilizzare come “maestri”, “educatori”, “sostenitori” degli ideali per cui sono stati scelti. Sta in questo aspetto la novità dell’iniziativa.  Questi dieci campioni, diventano membri di un club  esclusivo, “PrimiDieciSociety”,  destinato ad arricchirsi ogni anno di altri dieci campioni, formando, nel corso del tempo, una “numerosa comunità di eccellenze italiane”, fortemente coese tra di loro e che, attraverso iniziative, incontri, dibattiti televisivi, convegni, diventano un esempio, un “canale mediatico” promotore, sostenitore, divulgatore  di quegli alti valori professionali ed umani, che hanno praticato nella loro vita e di cui sono diventati degli ammirevoli testimonial.

1-riccardo-lo-faroSembra un’utopia. Siamo abituati ad essere inondati di informazioni,  articoli e spot di ogni genere su concorsi di bellezza,  reality televisivi, gare sportive, festival di ogni genere. Finalmente, una iniziativa che non sia una competizione effimera, chiassosa, che non richieda esibizioni fisiche, classifiche, che non insinui promesse mirabolanti da raggiungere con niente, ma che prenda in considerazione i valori, i successi concreti ottenuti con il lavoro sodo, continuo, eseguito lontano dai riflettori, frutto di intelligenza, di impegno professionale e accompagnato da quelle straordinarie qualità umane che rendono le persone veramente ammirevoli.

L’iniziativa è di un italiano, Riccardo Lo Faro, 48 anni, giornalista e scrittore, nato a Roma ma che fin da quando era studente universitario trascorre gran parte dell’anno  in Florida, dove ha uno studio.

<<Sono sempre stato affascinato dalle biografie delle persone famose>>, dice. << Di quelle che un tempo, in America, venivano definite “self-made man”, uomini che si fanno da soli.  Per circa dieci anni, negli USA, mi sono occupato principalmente di scrivere biografie, come ghost-writer.  Un  lavoro che mi ha permesso di conoscere a fondo il successo di molti americani importanti ma anche di parecchi italiani che si sono affermati in America.  E vero che noi italiani siamo conosciuti nel mondo  soprattutto  per gli spaghetti, per il migliore gelato, per la Ferrari e,  purtroppo,  anche per la per la  mafia. Ma io ho constatato, non solo negli Stati Uniti, ma anche in altre nazioni dove sono andato, che siamo soprattutto  accolti ed apprezzati per il nostro calore umano e per la volontà di stabilire  legami forti e profondi. Noi italiani  otteniamo successo professionale nel mondo perché siamo brave persone, capaci di realizzare successi impensabili, anche nelle condizioni più disagiate. E’ nata da queste riflessioni l’idea di dar vita a una iniziativa  che faccia conoscere queste persone straordinarie, per additarle come esempio soprattutto ai giovani>>.

3-bruno-seratoRiccardo Lo Faro ha lavorato a questa sua idea per due anni. Ha avvicinato personalità di ogni genere, politici, intellettuali, professori universitari, banchieri,  manager , consolati, ambasciate, accademie. Ha trovato appoggio, sostegno, incoraggiamento ovunque.  Tutti sentono che è necessario  nutrire i giovani di questo nostro tempo, frastornato da ogni genere di crisi,  con ideali luminosi, basati sui valori umani più alti. L’iniziativa è arrivata ora al suo primo traguardo reale, che sarà anche un decisivo test della qualità del suo avvenire.

<<Venerdì 22 novembre, ci sarà la presentazione della “PrimiDieci Society”>>, dice Riccardo Lo Faro.  <<I primi campioni di questa iniziativa, che prende il via in questo  2013, Anno della Cultura Italiana negli USA. Sono i primi a dar vita a quel “Club esclusivo dell’eccellenza italiana nel mondo” che noi vorremmo diventasse un faro di vita e di saggezza per le nuove generazioni>>.

Dove si terrà questa presentazione?

<<A New York, nel corso dell’annuale  Serata di Gala della Camera di Commercio Italy-America di New York. Un evento tradizionalmente  importante nella comunità italiana negli Stati Uniti, che già di per sé, ogni anno, richiama l’attenzione del pubblico, con la presenza della stampa, tv USA, italiana e internazionale, con 600 invitati vip, istituzioni, aziende eccetera. Quest’anno, grazie al presidente della camera di Commercio Italy-America, dottor Claudio Bozzo,  la celebre serata di Gala ha voluto aprire le porte anche alla nostra iniziativa. Il dottor Bozzo si è subito dimostrato entusiasta della nostra idea,  l’ha appoggiata al punto da patrocinare anche un nuovo settore riservato ai giovani professionisti italiani e italo-americani, settore che abbiamo chiamato “PrimiDieci-Under Forty”,cioè fino ai 40 anni di età>>.

4-luca-cicaleseCome si articolerà la cerimonia di presentazione?

<<Ai partecipanti a quella Serata di Gala, e ai rappresentanti dei mass media internazionali, verrà illustrata  l’iniziativa in tutte le sue sfaccettature e programmi. Verranno presentati anche i due volumi con le biografie  dei “PrimiDieci” e dei “PrimiDieci-Under Forty”.    Si tratta di due eleganti volumi contenenti dieci brevi biografie delle persone scelte, arricchite da fotografie a colori ed approfondimenti, pubblicate in due distinte versione: inglese ed italiano. E verranno naturalmente festeggiati  i protagonisti, come è giusto fare e come meritano. Madrina della serata, la contessa Francesca Baldeschi Balleani, che da almeno mezze secolo rappresenta la cultura italiana negli USA >>.

Quali saranno i programmi annuali della Society?

<<Per tenere vivo lo spirito della nostra iniziativa, non dobbiamo limitarci alla annuale premiazione. Ma anche nel corso dell’anno ci saranno varie occasioni perché questi “campioni di eccellenza” vengano conosciuti:  presentazione in varie sedi dei libri che raccontano la loro storia, partecipazione a programmi televisivi, conferenze, dibattiti, negli Stati Uniti e anche in Italia. In Italia, la Rai sta organizzando una trasmissione specifica sui “PrimiDieci 2013”. Durante la prossima estate, a Cortina d’Ampezzo, terremo una settimana di dibattiti sull’argomento con la partecipazione naturalmente dei  nostri protagonisti>>

5-cristiana-rastelliniChi sono i “PrimiDieci 2013?

<< Emilio Bizzi, neuroscienziato, uno dei più celebri studiosi del cervello che si siano oggi al mondo. Accademico dei Lincei, è anche membro della “American Academy of Arts and Sciences”, di cui è stato pure presidente. La sua esistenza è costellata di incarichi scientifici ad alto livello:   professore del “MIT Institute”, ricercatore del “McGovern Institute” e professore di Scienze del Cervello e Comportamento Umano presso Eugene McDermott. In tutte le sue attività professionali e in tutte le sue opere scientifiche egli ha sempre avuto una  particolare attenzione verso i giovani.

Luca Cicalese e sua moglie Cristiana Rastellini. Lui è un   celebre chirurgo dei trapianti,  professore di Dipartimento di Chirurgia, direttore del “Texas Transplant Center”; e lei, medico,  docente universitaria, ricercatrice e pioniere di una particolare tecnica di trapianto di insule pancreatiche (lobo della corteccia cerebrale),  fondamentale per la ricerca sul diabete. Hanno quattro figli e formano una coppia invidiabile nella ricerca scientifica come nella vita familiare>>.

Bruno Serato, chef, proprietario di uno dei più rinomati ristoranti di Los Angeles, il “Anaheim White House”, frequentato dai divi di Hollywood. Veneto d’origine, Bruno Serato è nato a San Bonifacio, in provincia di Verona, e giovanissimo è emigrato in America in cerca di fortuna. Ha cominciato come lavapiatti ed è diventato uno chef di fama mondiale.  Ma è anche un campione di generosità, impegnato nella distribuzione di centinaia di pasti giornalieri gratuiti ai bambini disagiati dell’area del sud California. Per questo, nel 2010, la rivista americana “People”  lo ha inserito nella lista dei “Sei Eroi degli Stati Uniti” e, nel 2011,   la Cnn  lo ha scelto per la sua “Top 20 Heores 2011”, dedicata alle persone che con il loro impegno tentano di cambiare il mondo.

2-emilio-bizziMatilda Cuomo, moglie dell’ex governatore dello Stato di New York, fondatrice e presidente di “Mentoring USA” e del “Mentoring USA-Italia”, fondazioni contro il disagio giovanile.

Arturo di Modica , scultore siciliano,  autore di opere ciclopiche, diventato famoso per i suoi “tori”:  quello simbolo  della Borsa di New York, e quello recentemente installato davanti alla Borsa di Shanghai

Federico Faggin, di Vicenza, da oltre 30 anni negli USA. Padre del primo microprocessore (Intel 4004), ha ricevuto la National Medal of Technology and Innovation, massima onorificenza statunitense per la tecnologia e l’innovazione.

Dante Ferretti , scenografo celeberrimo, tre volte premio Oscar con “The Aviator” e “Hugo” di Martin Scorsese e “Sweeney Todd” di Tim Burton.

Marco Marinucci,  ingegnere e  manager di Google.  Marco ha preso un Master in Ingegneria con specializzazione in Intelligenza Artificiale all’Università di Genova e poi è partito per il mondo.  E’ vissuto in Spagna e in Francia, prima di approdare a Google e stabilirli in California, a San Francisco. E’ il fondatore e direttore esecutivo di “Mind the Bridge” ed è responsabile del “Google’s content partnerships activities” in diversi Paesi.

Renato Turano,  calabrese di Castrolibero, emigrato con la sua famiglia negli Stati Uniti d’America nel 1950, quando aveva otto anni. E’ laureato in Economia, ha conseguito un master in Business Administration all’Università di Chicago  e ed è stato insignito di un Dottorato Honoris Causa dall’Università del Wisconsin-Parkside.  Imprenditore,  è a capo della più grande azienda di produzione di pane artigianale del Nord America. E’ un punto di riferimento di tutti i concittadini  della comunità italiana in Nord America.

7-marco-marinucci-primidieci-2013Mariuccia Zerilli Marimò, baronessa, conosciuta in America come “la leonessa della cultura italiana”. Fondatrice della  “Casa Italiana” presso la New York University,  sede della cultura italiana nella

Grande Mela, ha speso la sua esistenza a  promuovere, attraverso prestigiosi eventi, tutte le forme d’arte del nostro paese.

<<Ci sono poi i “PrimiDieci-Uunder Forty”, cioè i giovani italiani e italo-americani, che si stanno facendo onore in questo Paese e che, a loro volta, sono un grande esempio  di impegno professionale per le nuove generazioni>>.

Economicamente, come si sovvenziona un’organizzazione del genere?

<<Premesso che è una iniziativa privata, va subito detto  che non è previsto alcun costo a carico delle personalità scelte. L’opera  editoriale si finanzia unicamente tramite il sottoscritto, i miei collaboratori ed alcuni selezionati sostenitori/sponsor a cui dedichiamo una pagina intera del libro. Su 240 pagine di libro, una ventina circa sono offerte ai nostri sponsor. Per regola fondamentale, nessuno sponsor può essere legato in alcun modo alle dieci personalità scelte.

<<Nella preparazione di questa nostra iniziativa abbiamo incontrato ampia collaborazione, in particolare con il Ministero degli Affari Esteri, con la Direzione Generale Sistema Paese, con l’Istituto per il Commercio Estero, con la Camera di Commercio Italy-America di New York , con i Consolati Generali di New York,  Boston,  Chicago,  Miami, Houston,  Los Angeles,  San Francisco>>.

Renzo Allegri


Clamoroso documento fotografico

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sangueArticolo risalente all’anno 2000

Intervista curata da Tony Assante

Siamo nell’ “Anno Eucaristico” voluto da Giovanni Paolo II.  Alla fine di maggio, a Bari si terrà il “XXIV Congresso Eucaristico Nazionale”, alla cui conclusione, il 29 maggio, sarà presente anche Papa Benedetto XVI, nel suo primo viaggio apostolico fuori Roma.

Varie e interessanti pubblicazioni si sono susseguite in questi mesi sull’Eucarestia.  Tra esse, segnaliamo il libro di Renzo Allegri, “Il sangue di Dio. Storia dei miracoli Eucaristici”, pubblicato dall’Editrice Ancora, in libreria a partire dall’11 maggio, perchè in esso l’autore riporta un fatto incredibile accaduto proprio nel nostro tempo. Uno di quei fatti inspiegabili, che hanno le caratteristiche di un “segno” soprannaturale, di un autentico “prodigio” eucaristico.   Si tratta, come racconterò più avanti, di un’ostia che, nel corso della Messa,  al momento della consacrazione si solleva in aria e vi resta fino al momento della Comunione.  E il fatto, che si è verificato nella Basilica  Sotterranea di Lourdes, è documentato da immagini inequivocabili perchè quella Messa era ripresa in diretta dalla televisione francese. Da quel filmato abbiamo preso le foto che accompagnano questo scritto. Non sono di buona qualità proprio perchè ricavate da un video, ma sono un documento eccezionale. Si vede come l’ostia, che nel primo fotogramma aderisce perfettamente alla patena, poi si alza e resta sollevata in aria, staccata dalla patena di circa un centimetro. Il filmato, che riprende il fenomeno nel suo formarsi, è veramente impressionante.

Ma torniamo al libro “Il sangue di Dio”. Renzo Allegri, giornalista e scrittore, autore di oltre quaranta libri, tra i quali anche nove volumi dedicati a Padre Pio, ha affrontato il tema, delicato e importantissimo, dei “miracoli eucaristici” attenendosi soprattutto ai fatti di cronaca.

E’ partito dall’ultima Cena di Gesù, quando il Maestro Divino ha istituito l’Eucarestia. Quindi, è partito dal primo Miracolo eucaristico, il miracolo dei miracoli. E, procedendo in forma cronologica, ha messo in fila i più noti fatti prodigiosi che la Storia ricorda, legati appunto alla Eucarestia, inserendoli nel contesto ideologico del tempo in cui si sono verificati e raccontandoli con la chiarezza e la precisione del cronista.

<<L’Eucarestia è un mistero così grande>>, dice Allegri <<che confonde e spaventa la mente umana. Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che nel Santissimo Sacramento dell’Eucarestia “è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il Corpo e il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero”.  Quei tre termini “veramente, realmente, sostanzialmente” fanno tremare chiunque si soffermi a meditarli. Infatti, lungo il corso dei secoli, molti teologi, incapaci di credere a un mistero così grande, hanno cercato di dare spiegazioni più accettabili per la mente umana, allontanandosi però dalla sublime realtà insegnata da Gesù. La Chiesa è sempre intervenuta, fin dai primi tempi del Cristianesimo, condannando queste erronee interpretazioni che sono note con il termine di eresie. Ma anche la Provvidenza è intervenuta con “fatti prodigiosi” per richiamare l’attenzione degli uomini sulla reale presenza di Cristo nell’Eucarestia. Quei fatti sono i “Miracoli Eucaristici”.

Nel suo libro, Allegri ne racconta una sessantina, tra quelli più noti e più documentati, a cominciare dal miracolo di Lanciano, uno dei più famosi, verificatosi a metà del secolo VIII.  Riferisce, naturalmente, il miracolo di Bolsena, quello di Alatri, di Ferrara, di Firenze, di Torino, di Siena, e anche tanti accaduti fuori Italia. Fatti strepitosi, che si sono verificati nei secoli passati. Il libro, infatti, si ferma all’Ottocento. Viene quindi spontanea la domanda: <<Ma perchè nel nostro tempo non ci sono più “miracoli eucaristici”>>?

<<Ce ne sono>>, dice Allegri <<ma proprio perchè sono recenti vanno lasciati sedimentare. Sarà il tempo a decidere se si tratta di eventi prodigiosi o solo di cose illusorie. Nel mio libro mi sono volutamente fermato all’Ottocento per riferire solo episodi che, nell’ambito della tradizione cattolica, sono universalmente ritenuti validi>>

Ed è a questo punto che Allegri inserisce il fatto accaduto a Lourdes nel 1999. <<L’ho inserito nel libro>>, dice <<perchè è veramente sconcertante e  supportato da una documentazione televisiva così clamorosa da togliere il fiato. Non lo si può chiamare “miracolo eucaristico” perchè su di esso non esiste un giudizio da parte dell’Autorità ecclesiastica. Ma è certamente un evento che fa molto riflettere>>.

Il 7 novembre 1999 nella Basilica inferiore di Lourdes si teneva una Messa solenne.  Era celebrata dall’arcivescovo di Lione e con lui concelebravano l’allora arcivescovo di Parigi, cardinale Jean-Marie Lustiger, molti vescovi francesi, molti sacerdoti e tutti i superiori dei monasteri trappisti del mondo.  La cerimonia era trasmessa in diretta dalla televisione francese.

I celebrante aveva sull’altare per la Consacrazione due ostie molto più grandi di quelle che usano i sacerdoti italiani, come del resto è consuetudine in Francia. All’inizio della messa, le due ostie appaiono nel filmato appoggiate l’una sull’altra formando un corpo unico, tanto che non ci si accorge neppure che sono due e non una sola. Sono poste sulla patena, una specie di vassoio, e vi aderiscono perfettamente. Nel filmato ci sono diverse inquadrature che le riprendono in quella posizione e non ci sono dubbi che le due ostie siano fisicamente appoggiate l’una sull’altra e aderiscano alla patena. Al momento dell’ “epiclesi”, cioè quando i sacerdoti stendono le mani invocando lo Spirito Santo, si verifica il fenomeno.

Si vede l’ostia superiore che si stacca dalla sottostante e si solleva. Il movimento è impressionante: l’ostia si alza come se sotto di essa fosse scattata una molla e oscilla tre,  quattro volte nell’ aria prima di prendere una posizione fissa, orizzontale, a circa un centimetro dalla sottostante, e rimane poi in quella posizione fino alla fine del canone.

La ripresa televisiva mette in evidenza vari momenti della cerimonia, durante i quali il celebrante si muove, si sposta, ed è così possibile vedere,  attraverso le due ostie, una sollevata nell’aria e l’altra aderente alla patena, il colore dei paramenti indossati dal  celebrante. Poichè il filmato con queste immagini è abbastanza lungo e ricco di primi piani,  si ha la possibilità di acquisire, con ragionevole certezza, che non si tratta  assolutamente di illusione ottica o di inganno di prospettiva. Esperti del settore, dopo attento esame del filmato, hanno escluso nel modo assoluto una manipolazione tecnica delle immagini.

Miracolo? Come già detto, le autorità ecclesiastiche, interpellate varie volte, hanno scelto di non fare commenti ufficiali. Però, chiunque vede quel filmato prova un’emozione indescrivibile perchè assiste con i propri occhi al verificarsi di un qualche cosa che razionalmente non ha spiegazioni.

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Papa Francesco e l’Eucaristia

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1-papa-francesco-con-eucaristia-2Il segreto Eucaristico di Papa Francesco

Di Renzo Allegri

Papa Bergoglio ha una grandissima devozione  per  il mistero dell’Eucaristia. Lo ha affermato lui stesso recentemente nella lunga intervista al mensile  “Civiltà Cattolica”:  <<Nelle mie preghiere, ciò che davvero preferisco è l’Adorazione serale…La sera, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora in adorazione>>.

Il Catechismo della Ciesa Cattolica,  al paragrafo 282,  afferma:  <<Gesù Cristo è presente  nell’Eucaristica in  modo vero, reale, sostanziale:  con il suo Corpo, il suo Sangue, con la sua Anima e la sua Divinità>>.  Frasi che indicano una presenza concreta, si potrebbe dire “fisica”. Per questo, l’Eucaristia è il nucleo di tutto il Mistero della Fede cristiana. E’ un dogma, cioè una di quelle verità rivelate ritenute fondamentali. Pregare davanti al Santissimo Sacramento significa, per il credente, essere davanti alla Persona “vera e reale” di Gesù.

Domenica primo di settembre, il Papa, all’Angelus,  aveva parlato di un grave pericolo di guerra e aveva invitato i credenti di tutto il mondo a dedicare un giorno di preghiera e di digiuno per la pace. Aveva scelto il 7 di settembre vigilia della Festa della natività della Madonna,  decidendo di concluderlo con una solenne preghiera di adorazione eucaristica in Piazza San Pietro.

In genere,  questo tipo di preghiera viene chiamato “ora di adorazione”.  Papa Bergoglio ha trasformato “quell’ora” in quasi  “cinque ore”.

E per tutto quel tempo, dalle sette di sera a quasi mezzanotte,  lui è rimasto lì, davanti al Santissimo Sacramento, ora in piedi, ora inginocchiato, ora seduto, intervallando la preghiera vocale con lunghi silenzi, ma sempre lì, e con lui, nella Piazza, 100 mila persone, mentre milioni di altri credenti hanno seguito la cerimonia alla televisione.

2-papa-francesco-quattro-ore-di-adorazioneChi  ha seguito la cerimonia in televisione, ha potuto constatate,  grazie ai primi piani del volto del Papa,  con quale concentrazione, con quale intensità  Papa Francesco ha vissuto quella lunga preghiera.

Il suo viso era sereno ma teso, smunto, anche per il severo digiuno praticato in tutto il giorno. Si aveva la netta impressione che fosse realmente in colloquio con una presenza invisibile.

In tutte le occasioni in cui abbiamo visto Papa Bergoglio a contatto diretto con l’Eucaristia, come, per esempio, quando dice la Santa Messa, abbiamo avuto sempre la stessa precisa sensazione: il Papa viveva intensamente l’evento prodigioso che si stava compiendo davanti ai suoi occhi, e cioè la autentica presenza reale di Gesù, in anima corpo e divinità, come è in cielo.

E credo che, ogni volta, nella sua mente, si affacci anche il ricordo e le emozioni di un misterioso prodigio di cui egli è stato testimone per anni quando era in Argentina.

Si tratta di un fatto scientificamente inspiegabile, verificatosi nella chiesa di Santa Maria, a Buenos Aires: la trasformazione, in tempi diversi, di due ostie  consacrate in  pezzi di carne umana sanguinante. Uno straordinario e grande miracolo eucaristico .

Poco conosciuto, perché il cardinale Bergoglio  ha sempre cercato di tenere nascosta la vicenda per evitare il pericolo di  diffondere cose che potrebbero risultare non vere.  Ma ormai il fatto è stato esaminato da diversi grandi scienziati, è stato sottoposto ad analisi scientifiche di ogni genere e non è possibile trovare nessun’altra spiegazione se non quella di un vero e proprio miracolo eucaristico.

3-secondo-miracoloTutto cominciò il primo maggio 1992.  Nella chiesa parrocchiale di Santa Maria che si trova al centro di Buenos Aires, vennero trovati due pezzi di Ostia sul corporale del tabernacolo.

Il parroco, Alejandro Pezet, non sapendo quale origine avessero quei due frammenti, se appartenessero a Ostie consacrate o meno, seguì le diposizioni disciplinari stabilite dalla Chiesa per simili casi. Poiché la presenza “vera e reale” di Gesù nell’Ostia consacrata è strettamente legata al supporto delle specie eucaristiche, cioè del pane, basta far sciogliere il pane nell’acqua, e il problema è risolto. Quando non c’è più pane, non c’è più la presenza reale di Gesù.

Il parroco perciò fece mettere i due frammenti in un bicchiere d’acqua e attese.  Ma,  con il passare dei giorni, i due frammenti restavano intatti. Non si scioglievano.  Anzi, l’8 maggio avevano assunto un colore rosso sangue.

Il 10 maggio, altro evento. Durante la messa serale furono notate delle gocce di sangue sulla patena, il piattino su cui si pone l’Ostia consacrata. Il parroco, stupito, volle far analizzare quel sangue da alcuni ematologi, e risultò che era sangue umano.

Passarono quattro anni. Il 18 agosto 1996, terzo episodio clamoroso:  al termine della Messa, una donna si avvicinò al parroco e gli disse di aver trovato un’ostia in un angolo della chiesa. Il parroco, ricorse ancora alle regole del caso. Mise l’ostia in un bicchiere d’acqua, in attesa che si sciogliesse.

Il 26 agosto notò che l’ostia non si era sciolta, ma si era trasformata in un “frammento di carne sanguinolenta”.  Allora informò monsignor Bergoglio, che era il vescovo ausiliare del cardinale Antonio  Quarraccino.

Bergoglio disse di far fotografare il tutto da un professionista, per avere immagini ben precise, aggiungere una  dettagliata relazione e spedire tutto in Vaticano. E  conservare in un luogo appartato i reperti in attesa di sviluppi. Raccomandò in oltre il silenzio sulla vicenda.

Passò ancora qualche tempo e nei reperti conservati non cambiava nulla. Allora Bergoglio diede ordine di eseguire delle analisi scientifiche.

U4-miracolo-eucaristicon primo esame venne compiuto in un Laboratorio di Buenos Aires. Naturalmente senza rivelare mai ai ricercatori l’origine del campione da studiare.

Risultati: i globuli rossi e bianchi del sangue dei tessuti esaminati risultarono appartenere a un “cuore umano”. “Il cuore di un uomo ancora vivo, con cellule pulsanti come se fossero state in un cuore in attività”.

Stupefatti, il Vescovo Bergoglio e il parroco si resero conto che bisognava veder chiaro in quella vicenda.

Si rivolsero a una personalità molto nota e fidata, il dottor Ricardo Gomez Castañón, neuropsicofisiologo,   spiegandogli la vicenda e chiedendo il suo consiglio.

Il dottor suggerì di far eseguire delle ricerche ad alto livello,  in un famoso laboratorio di genetica, il Forence Analitycal di San Francisco, negli Stati Uniti.

Egli stesso fece i prelievi e preparò i campioni per i vari test. E questa volta vennero scelti campioni tolti da tutte e due le ostie ritrovate, quella del 1992 e quella del 1996.

Risposta da parte del laboratorio:  “Sul materiale inviato è stato trovato DNA umano. Si  tratta di sangue umano con codice genetico umano”.

Lo stupore cresceva. A Buenos Aires si formò una specie di comitato, comprendente pochissime persone che dovevano mantenere il segreto su quanto avveniva.

Gli stessi campioni esaminati a San Francisco vennero mandati anche a un altro celebre laboratorio, quello diretto dal  professor John Walker, dell’Università di Sydney in Australia. Anche il professor Walker constatò che quei campioni erano costituiti da cellule muscolari e cellule bianche del sangue, tutte intatte.

La ricerca ha inoltre  dimostrato che quei tessuti erano infiammati, quindi la persona a cui appartenevano aveva subito un trauma.  

5-professor-zugibeSempre più stupiti, il vescovo  Bergoglio  e gli altri appartenenti al comitato, vollero approfondire ancor di più la situazione inviando i campioni al più grande esperto in malattie del cuore: il dottor Frederic Zugibe, della Columbia University di New York.

Il professore, dopo aver compiuto un lungo esame, scrisse una relazione dettaglia,  in data 26 marzo 2005, nella quale tra l’altro si legge:  “Il materiale analizzato è un frammento del muscolo cardiaco tratto dalla parete del ventricolo sinistro in prossimità delle valvole.

Questo muscolo è responsabile della contrazione del cuore. Va ricordato che il ventricolo cardiaco sinistro pompa sangue a tutte le parti del corpo. Il muscolo cardiaco in esame è in una condizione infiammatoria e contiene un gran numero di globuli bianchi

Ciò indica che il cuore era vivo al momento del prelievo perchè i globuli bianchi, al di fuori di un organismo vivente, muoiono. Per di più, questi globuli bianchi sono penetrati nel tessuto, ciò indica che il cuore aveva subito un grave stress, come se il proprietario fosse stato picchiato duramente sul petto”.

Testimoni di queste analisi furono due australiani, che avevano seguito le ricerche anche in Australia presso il laboratorio del professor Walke, ed erano il giornalista televisivo 6-giornalista-australiano Mike Willesee, tra i più noti in Australia,  e l’avvocato Ron Tesoriero.

Questi due chiesero al professor Zugibe quanto tempo potevano vivere i globuli bianchi se fossero appartenuti a un frammento di carne umana tenuto in acqua.

La risposta fu: “Pochi minuti”. Quando il dottor Zugibe seppe dai due che quel materiale era stato tenuto per un mese in acqua e per tre anni in acqua distillata, restò esterrefatto.

Ancor più sconvolto apparve, però, quando scoprì, dal dottor Castanon, che quel frammento di cuore umano “vivente” era in origine un’Ostia, ossia un pezzetto di pane consacrato.

Gli interrogativi che si presentavano erano molti e tutti estremamente inquietanti: com’è possibile che un pezzetto di pane possa trasformarsi in un pezzetto di cuore umano?

Essendo scientificamente certo che i globuli bianchi si disintegrano in pochi minuti, com’è possibile vederli vivi in un pezzetto di carne conservata in acqua distillata da nove anni?

7-luogo-delladorazioneMa le sorprese incredibili non erano finte. Il piccolo comitato formatesi a Buenos Aires intorno a Bergoglio per questo caso, continuò a investigare.

I dati prodotti dall’analisi del laboratorio di New York furono confrontati con quelli ottenuti con le ricerche scientifiche, compiute tra il 1970 e il 1980, sulle reliquie del miracolo Eucaristico di Lanciano, accaduto nel secolo VIII.

I risultati furono che le due relazioni di laboratorio avevano analizzato campioni di prova “appartenenti alla stessa persona”,  segnalando che i due campioni di sangue erano uguali: tipo “AB” positivo.

Questi risultati del sangue vennero anche raffrontati con quelli ottenuti dal Sangue trovato sulla Sindone e sul Sudario di Oviedo.

E risultò che il  Dna delle Ostie di Buenos Aires è identico a quello riscontrato sulla Sindone e sul sudario di Oviedo.

Inoltre, le caratteristiche della persona cui quel DNA si riferisce, sarebbero quelle di un uomo che è nato e vissuto nella regione del Medio Oriente.

Il Vaticano non si è pronunciato su tutta questa storia. Forse non lo farà mai. Ma i dati degli esami scientifici dei vari Laboratori  sono pubblici.

Il giornalista  televisivo australiano,  Mike Willesee,  che era ateo, si è convertito.

Le reliquie sono conservate nella chiesa parrocchiale di Santa Maria a Buenos Aires, dove si tengono  continui incontri di preghiera e di adorazione.

Lo stesso cardinale  Bergoglio, quando era  a Buenos Aires, partecipava regolarmente a quegli incontri di preghiere di adorazione, restando ore intere raccolto in profonda meditazione davanti ai reperti di quell’evento inspiegabile.

Renzo Allegri


Giovanni XXIII visto da vicino

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2-copertina-libro-allegriUna biografia di Papa Roncalli scritta attraverso i ricordi di tante persone che gli vissero accanto.

Di Tony Assante

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Domenica 27 di aprile, Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli)  sarà proclamato santo, assieme a  Papa Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla).

In questo periodo sono stati pubblicati diversi libri sui due Pontefici e  tra questi anche una biografia scritta da Renzo Allegri per la casa editrice Ancora. Un bel volume di 350 pagine, dal titolo “La storia di Papa Giovanni”, che si fa apprezzare per la chiarezza narrativa, tipica di un giornalista che ha all’attivo una lunga carriera di cronista e di inviato speciale. Autore di centinaia di articoli,  di 55 libri, molti dei quali tradotti in varie lingue, Renzo Allegri è un indefesso “comunicatore con la penna”, che continua ad essere attivo anche negli anni della pensione, come dimostrano i suoi ultimi libri e i numerosi interventi per “Il Faustino”.

Lo abbiamo intervistato.

1-papa-giovanni-xxiiiQuale è la caratteristica della pubblicazione che hai dedicato a Papa Giovanni XXIII?

<<Non ho inteso scrivere una biografia in senso stretto. Cioè raccontando in forma cronologica  le vicende dell’esistenza di questo Papa.  Mi sono proposto invece di  trasmettere informazioni e fatti da me raccolti da persone che gli sono vissute accanto>>.

Roncalli è morto nel 1963: esistono ancora persone che lo hanno conosciuto bene?

<<Il contenuto del libro è il frutto di decine di articoli scritti nel corso di quasi cinquant’anni.  I miei primi articoli su Papa Giovanni XXIII,  infatti,  risalgono al 1967, quattro anni dopo la sua morte. Ne  sono poi seguiti decine e anche quattro libri: in tutte le mie pubblicazioni  ho soprattutto  riferito i racconti di coloro che  avevano conosciuto e frequentato Roncalli. In questo modo ho messo insieme una quantità eccezionale di  “testimonianze dirette”  che aiutano ad avere un ritratto “vivo”  di questo straordinario personaggio>>.

Chi sono le persone intervistate che più ti hanno aiutato in questa tua ricostruzione?

<< Alcune sono state fondamentali  soprattutto per i periodi poco noti della vita del Papa, come gli anni dell’infanzia, della prima adolescenza e del ventennio da lui trascorso nei Paesi dell’Est.

< Zaverio Roncalli, fratello del Papa, che era più giovane di lui di soli 18 mesi, mi ha aiutato molto per l’infanzia e l’adolescenza. Lo conobbi nel 1967,  aveva allora  84 anni e li portava benissimo. Andava a caccia,  lavorava nei campi  e aveva una memoria di ferro. Ricordava con molta precisione come si viveva nella sua famiglia quando lui era bambino.

3-roncalli-alla-regata-1955<<Un’altra persona che ricordava molte cose di quegli anni lontani, fu Camilla Roncalli, cugina e compagna di giochi del futuro Papa.  Incontrai anche alcuni compagni di scuola di Angelo Roncalli e tutti avevano ricordi straordinari.

<< Ma il periodo meno esplorato, per mancanza di documenti, della vita di Roncalli fu quello che va dal 1925 al 1945, gli anni della sua permanenza  in Bulgaria, Turchia e Grecia.

<<Per quel periodo ho avuto come informatore il professor Stefano Karadgiov, bulgaro, che conobbe Roncalli nel 1925, quando era studente universitario. Roncalli lo aiutò molto, lo fece studiare  in Italia, e una volta tornato in Bulgaria questo giovane divenne una specie di segretario di Roncalli. Attraverso i ricordi del professor Karadgiov  potei ricostruire alcuni aspetti molto interessanti della vita e dell’attività di Roncalli, soprattutto il suo rapporto con la Chiesa ortodossa bulgara.

<<Per gli anni della Turchia mi fu di grande aiuto  Padre  Giorgio Montico, un religioso conventuale, che era stato Superiore provinciale dei Frati Conventuali in Turchia quando c’era anche Roncalli.  Laureato in teologia a Roma, in Lettere all’Università di Padova, diplomato in organo e composizione al Conservatorio di Venezia, Padre Giorgio era un religioso di grande cultura, di vasta conoscenza ed esperienza. Roncalli lo stimava molto. Attraverso Montico, raccolsi episodi storici di grande rilievo sulla vita di Roncalli in quell’ambiente difficile, in quegli anni tormentati dalla guerra.

<<Per il periodo della sua attività  di Nunzio Apostolico  a Parigi,  riuscii ad avere le confidenze del suo autista. Per gli anni di Venezia e di Roma, mi sono avvalso  soprattutto dei racconti del suo segretario personale, Guido  Gusso, che aveva conosciuto Roncalli quando era patriarca di Venezia. Guido aveva allora 23 anni. Venne assunto come cameriere del Patriarca e lo aveva poi seguito a Roma, portando con se anche il fratello Paolo.  I due fratelli furono accanto a Papa Roncalli fino alla sua morte. Erano considerati membri della sua famiglia e furono così testimoni preziosissimi.

4-giovanni-xxiii-con-montini<<Furono loro due ad assistere Giovanni XXIII, anche di notte, durante l’ultima malattia. Dopo la morte del Papa, ricevettero favolose offerte di denaro dai più importanti giornali del mondo, per il racconto dei loro ricordi accanto a Papa Roncalli, ma rifiutarono sempre. Nel 1969, per una serie di circostanze particolari, Guido fece a me, in esclusiva mondiale,  quel racconto,  rivelando fatti e dettagli sorprendenti e meravigliosi. E per quel suo lungo racconto esclusivo,  per il quale i giornali più importanti del mondo erano disposti a pagare cifre da capogiro, non volle niente, neppure una lira, perché, come mi disse allora, “mai avrei speculato sui ricordi più belli della sua vita”.

<<A questi testimoni eccezionali devo anche aggiungere  monsignor Loris Capovilla, segretario storico di Roncalli e oggi Cardinale della Chiesa; Padre Antonio Cairoli, che fu il primo postulatore della causa di beatificazione di Roncalli; don Battista Roncalli, sacerdote e nipote di Giovanni XXIII;  e monsignor Giuseppe Battaglia, che fu allievo di Roncalli, poi suo collega di insegnamento in Seminario a Bergamo e infine vescovo di Faenza. Il mio libro è formato, quindi, prevalentemente dai ricordi di queste persone che conobbero  in modo profondo Giovanni XXIII>>.

Quali sono le vicende più esclusive che racconti?

<<Tutto è, in un certo senso, esclusivo. Non solo i fatti che le persone citate mi hanno riferito, ma anche le loro emozioni,  le loro reazioni,  i sentimenti suscitati dal contatto con quella personalità così singolare.

6-allegri<<Ritengo che la parte più commovente del libro stia nei racconti dei fratelli Gusso. Loro  vivevano accanto al Papa in continuazione e osservavano tutto con occhi semplici, da persone di famiglia.

<<Molto interessanti sono  i racconti che riguardano l’attività di Roncalli in Oriente: i suoi rapporti con gli ortodossi;   le sue idee sull’ecumenismo, che sarebbero poi diventate uno dei valori portanti del Concilio Vaticano II; la sua misteriosa, incessante azione diplomatica svolta durante la guerra, per salvare ebrei. Padre Cairoli, postulatore della causa di beatificazione di Giovanni XXIII,   nel 1971 mi disse che gli ebrei salvati da morte da Roncalli furono più di 50 mila.

<<Ritengo tuttavia che uno dei capitoli più straordinari sia quello che riguarda i rapporti di Giovanni XXIII con Kruscev, dei quali mi ha parlato a lungo Monsignor Capovilla. A cominciare  dal fatto che il primo dei due a cercare  i contatti con l’altro fu il leader comunista russo, nel 1961. Papa Giovanni, contro il parere compatto della Curia vaticana, volle rispondere e nacque quel dialogo, di cui ancora si conosce poco, che portò, nel 1962, durante la famosa crisi dei missili di Cuba, a evitare una probabile terza guerra mondiale>>.

Hai qualche ricordo diretto di Papa Giovanni?

<<L’ho visto una sola volta, quando era patriarca di Venezia e gli ho baciato la mano insieme a tante altre gente che lui salutava. Non ho alcun ricordo personale. Se chiudo gli occhi e penso a quel breve incontro, vedo una persona anziana, serena, che sorride.

<<Naturalmente ho poi seguito, attraverso giornali, radio e televisione, tutta la sua straordinaria attività. Appena eletto, data la sua età, 77 anni, si pensava a un papa di passaggio e, invece, è stato un ciclone: in cinque anni ha  portato nella Chiesa cambiamenti drastici, iniziative potenti che, attraverso il Concilio Vaticano II,  hanno dato vita a una energia rivoluzionaria, che è ancora attiva>>.

Tony Assante

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Santi per l’umanità del terzo millennio

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papiGiovanni XXIII e Giovanni Paolo II: santi per l’umanità del terzo millennio
Ieri a Milano, conferenza di mons. Delpini sul messaggio delle Encicliche dei due Papi che saranno canonizzati domenica

Roma, 24 Aprile 2014 (Zenit.org) Federico Cenci

All’interno di un gremito Cine-Teatro della parrocchia di San Protasio, a Milano, si è tenuta ieri, 23 aprile, in vista della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, una conferenza dal titolo Due Papi Santi

È intervenuto mons. Mario Delpini, Vicario generale della Diocesi di Milano, il quale ha tracciato un profilo dei due Pontefici approfondendo alcune loro Encicliche e spiegando il messaggio di speranza da esse divulgato all’umanità intera.

Il vescovo ha introdotto il suo intervento con l’Enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, del 1963, definita “un appello urgente” e portatrice di “un’idea di pace che viene proposta come responsabilità da praticare”.

Mons. Delpini ha detto che la pace di cui scrive papa Roncalli non è “un equilibrio delle forze che garantisce che non ci sia la guerra e che quindi richiede una rincorsa agli armamenti per garantire tale equilibro”, bensì “un’armonia e ordine tra la gente e i popoli” che ha una dimensione spirituale in quanto “attuazione dell’ordine della Creazione di Dio”.

Armonia e ordine garantiti dalla consapevolezza che ogni essere umano è persona, “soggetto di diritti e di doveri”, che possono attuarsi soltanto attraverso una “mutua collaborazione, in atteggiamento di responsabilità; convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà; ordine morale che ha per fondamento oggettivo il vero Dio”.

“La convivenza fra gli esseri umani è quindi ordinata, feconda e rispondente alla loro dignità di persone, quando si fonda sulla verità”, ha proseguito il presule citando l’Enciclica. Convivenza “vivificata e integrata dall’amore”, quell’atteggiamento d’animo “che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui”.

Giovanni XXIII spiega dunque che “la convivenza umana deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale”, quale “comunicazione di conoscenze nella luce del vero”. Inoltre, va interpretata come “esercizio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali”.

Mons. Delpini ha poi posto l’accento sull’invito contenuto in Pacem in terris di arrestare la corsa agli armamenti.“Non si deve permettere – scrive Giovanni XXIII citando il suo predecessore Pio XII – che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e perturbamenti morali si rovesci per la terza volta sull’umanità”.

Ma la pace, per attuarsi, deve essere fondata su quell’ordine che, aggiunge papa Roncalli, “il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà”.

Il Vicario generale della Diocesi di Milano ha fatto notare come “le intuizioni della Pacem in terris” siano state riprese nel Concilio Vaticano II, nei documenti Gaudium et spes; Dignitatis Humanae, Gravissimum educationis.

Concilio Vaticano II che è stata, secondo mons. Dolpini, “occasione di arricchimento determinante” per la personalità di Karol Wojtyla. Nel dibattito conciliare, il suo contributo “si è segnalato particolarmente durante la redazione di Dignitatis Humanae e Gaudium et Spes. Un tema ricorrente nei suoi interventi è “la dignità della persona umana”.

Tema che ricorre pertanto lungo tutto il pontificato di Giovanni Paolo II. Nella sua prima Enciclica, Redemptor Hominis, del 1979, scrive il Papa: “La Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui ‘sorte’, cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto ed indissolubile unite al Cristo”.

L’uomo, quindi, è “la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione”.

“È proprio all’interno dell’uomo – prosegue Giovanni Paolo II – che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore”.

Il vescovo lombardo ha poi fatto notare come il Papa polacco si preoccupasse del fatto che “la genialità e l’iniziativa” dell’uomo possono però essere rivolti “in modo radicale contro lui stesso”.

“Questo progresso – si domandava infatti il Santo Padre -, il cui autore e fautore è l’uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, ‘più umana’? La rende più ‘degna dell’uomo’?” Non ci può esser dubbio – proseguiva Giovanni Paolo II – che, sotto vari aspetti, la renda tale. Quest’interrogativo, però, ritorna ostinatamente per quanto riguarda ciò che è essenziale in sommo grado: se l’uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti”.

Lo “sviluppo economico”, ha dunque concluso mons. Delpini parlando della Redemptor Hominis, può essere accolto soltanto una volta stabilito, accettato e approfondito “il senso della responsabilità morale, che l’uomo deve far suo”.

Fonte articolo



Aneddoti su Giovanni XXIII

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1-papa-giovanni-xxiiiUn pontificato che ha anticipato quello di papa Francesco
Renzo Allegri racconta tanti aneddoti che rendono evidenti le similitudini tra il pontificato di papa Bergoglio e quello del beato Giovanni XXIII

Una volta, fece 800 chilometri per andare a festeggiare una piccola comunità cristiana. Alle cerimonia in chiesa, c’erano undici persone.

Appena arrivò in Vaticano cambiò la consuetudine di donare un santino con l’effige del Papa come ricordo e come ringraziamento per un servizio fatto al Santo Padre.

Quando si presentava l’occasione per ringraziare qualche operaio che aveva fatto un lavoretto,  papa Giovanni XXIII diceva al Segretario: “Mi raccomando, gli dia un santino, ma di quelli che servono per comprare un mazzo di fiori per la moglie”. E questo significava che il “Santino del papa” doveva essere un biglietto da cinque o diecimila lire.

Questi sono due degli aneddoti che il giornalista, scrittore e critico musicale Renzo Allegri racconta nell’intervista che segue

Renzo Augusto Allegri ha studiato alla “Scuola superiore di Scienze Sociali” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ha lavorato con il settimanale Gente per 24 anni. È stato caporedattore per la rubrica Spettacolo del settimanale Noi e del settimanale Chi.

Come scrittore ha pubblicato più di cinquanta di libri in lingue e paesi differenti. Comprali cliccando qui

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Lei ha scritto diversi libri su Papa Giovanni, vero?

Come giornalista, ho cominciato a scrivere su Papa Giovanni nel 1967. Lungo il corso degli anni, ho scritto decine di articoli e quattro libri. Ho sempre lavorato con settimanali laici e con case editrici laiche. E l’argomento “Papa Giovanni” è sempre stato molto gradito in queste case editrici laiche perché interessava il grande pubblico.

L’ultimo mio libro su Papa Giovanni è uscito il 2 aprile, con il titolo La storia di Papa Giovanni, raccontata da chi gli è stato vicino, e questa volta con una casa editrice cattolica, Ancora.

Il contenuto del libro, come indica il titolo, è costituito da racconti, in presa diretta, fatti da persone che gli sono state vicine e che ho intervistato nel corso degli anni, a cominciare dal 1967, quando il Papa era morto da poco ed erano ancora vivi i suoi fratelli, alcuni suoi compagni di scuola, collaboratori e amici.

Ha conosciuto personalmente papa Roncalli? Lo ha frequentato? Che tipo era dal punto di vista umano? E come Papa?

L’ho visto una sola volta, quando era patriarca di Venezia e gli ho baciato la mano insieme a tante altre gente che lui salutava. Non ho alcun ricordo personale. Se chiudo gli occhi e penso a quel breve incontro, vedo una persona anziana, serena, che sorride.

In seguito, attraverso i racconti delle persone che ho intervistato, mi sono fatto l’idea che, dal punto di vista umano, Roncalli era una persona di grande sensibilità, nobile nel profondo del cuore, saggio, prudente, che cercava sempre di valutare le cose e le vicende con ponderazione, illuminata dalla sua fede in Dio.

Di Giovanni XXIII sono state dette tantissime cose; certe vere, altre false. Proviamo a chiederle a proposito del fatto che fosse un “Papa socialista”.

Sì, certamente era socialista, ma nel senso evangelico del termine. Era cioè consapevole di essere una persona come tutte le altre esistenti al mondo, persone che hanno una dignità altissima, in quanto sono “figli di Dio”, da lui create a propria immagine e somiglianza. Quindi, era aperto al sociale con amore grandissimo ed ha trascorso la vita pensando agli altri, lavorando per gli altri, cercando sempre il bene degli altri, nell’ottica della vita eterna alla quale tutti gli esseri viventi sono destinati. Il suo “sociale”, si estendeva con straordinaria e sorprendente naturalezza anche all’aldilà, che per lui non era una “categoria” lontana,  spirituale al punto di essere evanescente, ma una realtà con la quale conviveva tutti i giorni. Pregava sempre per le persone che aveva conosciuto e che erano morte. Nella sua camera, da Papa, aveva molte foto delle persone care esposte su un tavolino che gli ricordavano un mondo invisibile, ma realissimo.

Altri hanno detto che era un “super-conservatore”.

Con la qualità delle sue convinzioni religiose, umane e sociali, non poteva essere un conservatore, nel senso che si dà comunemente a questo termine. Proveniva da una famiglia povera. I suoi non erano contadini, come in genere si dice, ma erano “mezzadri”, cioè lavoravano la terra di altri e avevano in cambio una parte del raccolto. Avevano in gestione tre ettari di terra, una miseria, per sfamare una famiglia che comprendeva, complessivamente, una trentina di persone.

Roncalli è cresciuto sperando in un avvenire migliore, in un progresso positivo ed evangelico  anche per i poveri. Aveva forte dentro di sé la speranza del cambiamento, del miglioramento. E lo ebbe sempre anche in campo spirituale, come cristiano.  Da giovane sacerdote sostenne il sindacato dei lavoratori, appena sorto a Bergamo, e difese il diritto di sciopero, inimicandosi i benpensanti religiosi e civili. Fu anche accusato di modernismo, e dovette scrivere a Roma una lunga lettera per difendersi e chiarire le proprie idee.  Quando era vescovo in Bulgaria, come delegato della Santa Sede, amava seguire le cerimonie religiose nelle chiese degli ortodossi, cercava l’amicizia con gli ortodossi, dei quali si sentiva doppiamente fratello, come persona e come credente in Cristo, e fu accusato e rimproverato da Roma. Da cardinale e da Papa, la sua condotta e i suoi documenti dottrinali non sono certo impregnati di idee conservatrici.

5-tomba-giovanni-xxiiiAlcuni hanno sostenuto che lui ha iniziato il Concilio senza sapere bene cosa andasse a fare.

È una affermazione superficiale e non corrispondente al vero. Viveva in perfetta comunione con Dio e quindi sempre attento alle ispirazioni che sorgevano nel suo cuore e nella sua mente come conseguenza delle sue preghiere, dei suoi colloqui con Dio. Valutava le ispirazioni e quando “sentiva” che erano autentiche le metteva in atto, con fiducia serena che era frutto della sua fede. È stato un docile e perfetto servo del Signore. Anche per il Concilio Vaticano, che, si potrebbe dire, fu il sogno della sua vita, fin da quando era giovane.

Al contrario altri hanno detto che aveva un’idea molto chiara della necessità del Concilio ed anche il coraggio e la lungimiranza di capire che sarebbe stato un gran bene per la Chiesa.

Sono d’accordo. La storia infatti gli ha dato ragione. Ed ha anche dimostrato che coloro che non hanno creduto, come aveva fatto lui, che quella iniziativa provenisse da Dio, si sono resi responsabili di averne frenato l’attuazione nel corso degli anni, di averne snaturato il senso, provocando un danno grande alla Chiesa e alla società, come, a distanza di mezzo secolo, stiamo constatando.

Nonostante avesse svolto la maggior parte della sua attività come diplomatico, dicevano che fosse molto pastorale, è vero?

A guardar bene la vita di Roncalli, si constata che fu soprattutto e sempre uno straordinario pastore. In Bulgaria, dove fu rappresentante della Santa Sede dal 1925 al 1935, la sua attività diplomatica era quasi inesistente. I cattolici erano lo 0.90% della popolazione. Mentre gli ortodossi erano 85 per cento. Ma tra le due comunità non c’era nessuna comunicazione, se non quella dell’odio. Anche in quell’ambiente, Roncalli fu soprattutto pastore, nel senso che viveva come testimone di Cristo aiutando tutti, interessandosi dei poveri, senza tener conto se fossero cattolici o ortodossi o di altre fedi religiose. Qualcuno ha scritto che dalla Curia Romana era stato inviato in Bulgaria con un compito preciso: combinare il matrimonio tra Re Boris, ortodosso, e Iolanda di Savoia, cattolica, con il fine di avere dei principini di fede cattolica, estendendo in questo modo l’influenza politica italiana in quello Stato e di conseguenza anche l’influenza vaticana.  Ma, se questo progetto fu caldeggiato a Roma, in pratica fallì. Roncalli si interessò del matrimonio di Re Boris. Riuscì a convincere Re Boris, ortodosso, a celebrare un matrimonio cattolico con l’impegno di educare i figli nella religione cattolica. E questa vittoria diede fama e gloria a Roncalli. A Roma, tutti cambiarono atteggiamento e gli portavano ammirazione e rispetto. Ma solo per pochi mesi. Re Boris non mantenne le promesse. Dopo il matrimonio con rito Cattolico ad Assisi, ne celebrò subito un altro con rito ortodosso in Bulgaria, scatenando le ire di Pio XI e quelle della Curia romana che voleva la testa di Roncalli. Ma Pio XI aveva stima profonda di quel vescovo e attese qualche anno e poi lo trasferì alla Nunziatura di Turchia.

Se aveva fallito come diplomatico, Roncalli aveva però riportato grande successo come pastore. Tutti gli volevano bene. Compreso Re Boris che, poi, durante la guerra, perse il trono e la vita per seguire le richieste di Roncalli.

Come reagì Roncalli a quelle vicende?

Dopo quella sconfitta, Roncalli come diplomatico era fallito. Ne soffriva, ma offrì le proprie sofferenze a Dio. Volle fare un lungo pellegrinaggio per l’Europa, sostando in preghiera nei principali santuari. Andò a visitare la Cecoslovacchia, fermandosi a Praga, poi la Polonia con tappa alla Madonna nera di Czestokowa, quindi in Germania, dove conobbe Eugenio Pacelli, Futuro Pio XII, che era nunzio apostolico a Berlino. Andò infine in Francia, a Parigi e a Lourdes.

Nel 1934 fu nominato Delegato apostolico in Turchia e Grecia. Si trasferì a Istanbul, dove rimase per oltre dieci anni. I cattolici in Turchia erano pochissimi, meno dello 0.2 per cento della popolazione.  Alla messa nella cattedrale, alla domenica, arrivavano, sì e no, una ventina di persone. Ma Roncalli si comportava come se la cattedrale fosse piena. Scriveva i discorsi e li leggeva. Annotò nel suo diario: “Prima di salire sul pulpito, mi rivolgo agli angeli custodi di tutti i fedeli del vicariato e li supplico di portare la mia parola a tutti, anche a quei fedeli che non sono mai venuti in chiesa”.

Una volta, fece 800 chilometri per andare a festeggiare una piccola comunità cristiana. Alle cerimonia in chiesa, c’erano undici persone.

Dedicava tutto il suo tempo ai poveri, agli ammalati, ai derelitti, a qualunque religione appartenessero. Non attendeva che i bisognosi si rivolgessero a lui, li precedeva: quando veniva a sapere che una persona aveva bisogno, correva a portare aiuto. Padre Giorgio Montico, che era superiore dei Francescani conventuali in Turchia e fu grande amico di Roncalli, mi diceva che si toglieva letteralmente il pane di bocca per aiutare i poveri che in quel periodo erano molto numerosi in Turchia. Certe settimane stava giorni interi senza avere di che mangiare.

Ha salvato ebrei?

Migliaia. Nel 1971 padre Cairoli, che era postulatore della causa, mi disse: “Non è possibile stabilire quanti ebrei abbia salvato dalla morte in quegli anni monsignor Roncalli. Si calcola che abbia salvato 40-50 mila ebrei”.

Nel 1943, circa 23 mila ebrei Slovacchi si erano rifugiata in Bulgaria. Hitler chiese a Re Boris, suo alleato, di rispedirli indietro. Significava mandarli a morire nei Lager. Roncalli si inserì nella vicenda riuscendo a convincere Re Boris a farli proseguire per la Turchia. Re Boris venne chiamato a rapporto da Hitler. Quando tornò a casa, misteriosamente morì all’improvviso.

Un giorno nel porto di Istanbul arrivò una nave carica di bambini ebrei. Erano circa 25 mila. La nave proveniva dalla Romania ed era riuscita a superare il blocco tedesco. La Turchia non voleva grane con Hitler e decise di riconsegnare la nave ai tedeschi. Monsignor Roncalli cominciò a interessarsi febbrilmente della vicenda. Contattò autorità turche, rumene, tedesche. Alla fine, la nave ottenne il permesso di attraversare lo stretto di Dardanelli e portare i bambini in salvo.

Durante la guerra, Istanbul era neutrale. Divenne centro frenetico di attività diplomatiche, ma anche di oscuri intrighi di spionaggio. Tutti sapevano che Roncalli, con le sue amicizie, riusciva ad arrivare ovunque. Per questo era sorvegliato dai servizi segreti di mezzo mondo. Ma egli era diventato astuto e riusciva sempre a seminarli e confonderli.  Viaggiava di notte, in borghese, ricorrendo a strani travestimenti. Un autentico 007. Si sa che per aiutare il prossimo, in quegli anni fece di tutto, rischiando continuamente la vita.

Ha aperto nuove relazioni con gli Ortodossi?

Più volte egli manifestò ai suoi collaboratori la sua viva e precisa convinzione: “La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo. Dividendo quel corpo, si uccide Gesù”.. Ovunque, in Bulgaria, in Turchia, in Grecia, in quegli anni, ha sempre cercato contatti con le varie religioni, in particolare con gli ortodossi, discutendo, favorendo il dialogo e l’amicizia. I suoi sforzi, volti a dissipare pregiudizi e a migliorare reciproche relazioni, furono un ottimo allenamento per quell’ecumenismo che sarebbe diventato l’anima del Concilio Vaticano II.

Chi erano i profeti di sventura di cui si lamentava?

Raramente si lamentava. E quando lo faceva, non personalizzava mai, non faceva nomi. Solo nelle pagine del suo diario ha lasciato indicazioni inequivocabili, come questa:  “Come mi era facile prevedere, il mio ministero doveva recarmi molte tribolazioni. Ma, cosa singolare, queste non mi vengono dai bulgari per i quali lavoro, bensì dagli organi centrali dell’amministrazione ecclesiastica. È una forma di mortificazione e di umiliazione che non mi attendevo e che mi fa molto soffrire”.

Quali secondo te le ragioni per cui è stato beatificato e ora verrà canonizzato?

Per tutta la vita ha esercitato in forma veramente eroica tutte le virtù evangeliche, con una dedizione assoluta a Dio e al prossimo, vivendo in povertà, in umiltà, ma con il cuore gonfio di amore e di tenerezza per gli altri. Un santo evangelico totale. Alla sua morte, la fama di santità era così grande, così diffusa, che alcuni Padri Conciliari avevano proposto che fosse proclamato santo per acclamazione, durante un’assemblea conciliale.

6-allegriC’è qualche altro aneddoto che vorrebbe raccontare?

Tutta la vita di Roncalli è piena di aneddoti divertenti. Era un maestro del sorriso, della gentilezza, delle serenità, del rispetto amoroso per il prossimo. Aiutava le persone bisognose facendo pervenire loro somme di dinaro accompagnate sempre da un biglietto in cui era scritto: “Da parte di un ignoto benefattore che chiede di essere ricordato nelle preghiere”.
Quando, in Turchia,  andava nelle parrocchie, o in qualche istituto a celebrare la Messa, poi gli offrivano una busta con dentro una generosa offerta, ma lui, conoscendo le ristrettezze economiche di quei preti, rifiutava sempre e diceva: “Chissà quale trabocchetto c’è lì dentro: non mi fido di prenderla”.

In Vaticano c’era l’abitudine di dare un santino con l’effige del Papa benedicente, come ricordo e come ringraziamento per un servizio fatto al Santo Padre. Appena arrivato,  Papa Giovanni cambiò quella consuetudine. E quando si presentava l’occasione per ringraziare qualche operaio che aveva fatto un lavoretto, diceva al Segretario: “Mi raccomando, gli dia un santino, ma di quelli che servono per comprare un mazzo di fiori per la moglie”. E questo significava che il “Santino del papa” doveva essere un biglietto da cinque o diecimila lire.

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Articolo proveniente dal sito ZENIT


Ci ha lasciato Carlo Bergonzi

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1CARLO BERGONZI: UNA VITA NELLA MUSICA

Ricordi storici e inediti in questa lunga intervista con il  grande interprete verdiano del Novecento,  scomparso il 25 luglio all’età di 90 anni, che  aveva concesso al “Faustino” in occasione del prestigioso premio  vinto a Venezia nel 2010.

Di Renzo Allegri – Foto di Nicola Allegri

Il tenore Carlo Bergonzi è stato festeggiato sabato 11 dicembre 2010 al Teatro La Fenice di Venezia, con la consegna del premio “Una vita nella musica – Artur Rubinstein”.

<<Sono particolarmente felice di questo premio>>, disse in quell’occasione il tenore. <<A Venezia mi legano ricordi importanti. Nel 1957 interpretai “Cavalleria Rusticana”, allestita in Piazza San Marco. In quell’occasione, incontrai Angelo Roncalli, che era patriarca di Venezia e l’anno successivo sarebbe diventato Papa con il nome di Giovanni XXIII. Poi, interpretai il “Requiem” di Verdi a Palazzo Ducale con la direzione di Herbert Von Karajan. Al Teatro La Fenice interpretai due edizioni di “Aida”, e “Un ballo in maschera”. Per me, La Fenice è il più bel teatro che ci sia al mondo, un vero gioiello artistico>>.

Bergonzi non ha avuto la possibilità di frequentare scuole importanti. Anzi, come egli stesso racconta, nel canto non ha proprio avuto maestri di nessun genere. Si è fatto da solo. Ma, forse, essendo nato nella terra di Verdi, avendo respirato l’aria che respirava Verdi, potrebbe essersi verificato un magico e misterioso fenomeno di osmosi: il grande compositore potrebbe avere trasmesso al ragazzo Bergonzi quelle intuizioni, quei segreti, quegli accorgimenti tecnici e stilistici che gli hanno permesso poi di indicare vie rivoluzionarie nell’interpretazione delle opere del maestro.

<< Mio padre faceva il casaro e io cominciai a lavorare con lui quando avevo sei anni>>, ci ha raccontato il tenore in questa lunga intervista. . <<Anche se eravamo povera gente, senza studi e senza cultura, Verdi e la sua musica riempivano il nostro cuore. Nel caseificio, dove iniziavamo a lavorare alle quattro del mattino, le arie verdiane erano l’espressione della nostra gioia di vivere e confortavano la monotonia della dura fatica>>.

2E’ vero che la musica verdiana ce l’hai sempre avuta nel sangue, quasi ti fosse stata trasmessa geneticamente?

<<Non saprei rispondere. Nella mia famiglia non ci sono mai stati musicisti o cantanti professionisti. E’ un fatto però che ho sempre amato svisceratamente Verdi, fin da bambino. Quando sentivo mio padre e gli altri contadini cantare le romanze dalle opere di Verdi, restavo incantato ad ascoltare. Le imparavo subito e continuavo a cantarle anch’io con passione. Come ti ho già detto, a nove anni mio padre mi portò a teatro e vedere “Il Trovatore” e rimasi sconvolto. Giurai a me stesso che sarei diventato un cantante lirico. E da allora non ho avuto altri scopi nella mia vita>>.

E’ stato difficile realizzare questo sogno?

<<All’inizio le difficoltà sono state molte. Non di tipo musicale. Sembrava però che intorno a me ci fosse una specie di congiura per impedirmi la carriera musicale. I primi ostacoli arrivavano dal fatto che io, dopo la quinta elementare, avevo smesso di andare a scuola e avevo cominciato a fare il casaro insieme a mio padre. Quando poi, a 16 anni, decisi di studiare canto, dovetti riprendere i libri in mano e mi resi conto che avevo dimenticato tutto. Fu molto duro ricominciare da capo>>.

Chi ti convinse a fare quella scelta?

<<Cantavo facendo il formaggio, e tutti dicevano che avevo una bella voce. “Perchè non studi canto?” azzardava qualcuno. All’inizio la proposta mi sembrava assurda. Ma a forza di sentirmela ripetere cominciai a prenderla in considerazione. Ci fantasticavo sopra. “Forse potrei farcela”, mi dicevo. Un giorno andai a trovare un ex baritono di Busseto per chiedere un giudizio tecnico sulla mia voce. “Sei ancora troppo giovane”, disse. “Ma la voce c’è. Potresti diventare veramente un cantante”. Quelle parole scatenarono la mia immaginazione e il mio entusiasmo. Cominciai a fare progetti. E cominciai anche a chiedere a mio padre di poter riprendere gli studi>>.

E tuo padre?

<<A lui le difficoltà parevano insormontabili. Non avevamo soldi. Il mio lavoro in cascina era indispensabile. Comunque, non mi ostacolò. “Prova”, disse. Continuai ad andare a lavorare regolarmente, ma ripresi a studiare. Tutto il tempo libero lo passavo sui libri per superare l’esame di ammissione al Conservatorio. E ce la feci. Fui ammesso al Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma. Al mattino mi alzavo prima delle quattro e andavo in cascina a fare il formaggio, poi, prendevo il treno e andavo al Conservatorio. Studiai canto, pianoforte e frequentai le scuole medie per avere un po’ di cultura. Furono anni preziosi per la mia formazione anche se gli insegnanti non avevano capito niente della mia voce>>.

3In che senso?

<<Dicevano che ero un baritono e mi fecero studiare per quel registro. Grazie all’intuizione dei miei insegnanti, per dieci anni studiai e cantai convinto di essere un baritono. Ma ancor prima di finire la scuola, quando avevo poco più di 18 anni, sulla mia strada si presentarono altre difficoltà che insidiarono non solo la mia voce ma anche la mia vita stessa>>.

Che tipo di difficoltà?

<<La guerra. Nel 1943 fui chiamato al servizio militare. Mi mandarono a Mantova, nella contraerea. E quando arrivò l’armistizio, l’8 settembre sempre di quell’anno, i miei compagni scapparono e tornarono quasi tutti a casa. Io invece ero a letto con quaranta di febbre, fui preso dai tedeschi, portato in barella nel campo sportivo e da lì spedito in Germania, destinato ai campi di concentramento. Il viaggio verso la Germania, durato tre giorni, in un treno che serviva per il trasporto del bestiame, lo feci con la febbre che mi divorava, senza acqua e senza cibo. Fu un miracolo se sopravvissi. Ma qualcuno, dal cielo, certamente vegliava su di me>>

Quanto tempo sei rimasto prigioniero dei tedeschi in Germania?

<<Ventisei mesi. Sono finito sul Baltico, ai confini con la Polonia. Alloggiavamo in un campo di baracche di legno e lavoravamo alla costruzione di una linea ferroviaria. D’inverno faceva molto freddo. Anche trenta gradi sotto zero. Si mangiava da cani, patate e brodo d’erba. Durante quei mesi mi sono ammalato molte volte, ma non potevo restare a letto. Andavo a lavorare febbricitante. A volte la testa mi girava e non vedevo neppure la strada, tanto ero frastornato. Sono tornato a casa che pesavo 35 chili. Mia madre, quando mi vide, mi guardava sospettosa. Non corse ad abbracciarmi e continuava a ripetere: “No, questo non è mio figlio”>>.

Giuseppe di Stefano e Mario Del Monaco mi hanno raccontato che, durante la guerra, loro, per il fatto che avevano una bella voce e sapevano cantare romanze d’opera, erano stati trattati bene, avevano evitato sacrifici e fame. Tu non hai avuto questa fortuna?

<<No. In campo di concentramento non avevo quasi neppure fiato per reggermi in piedi, immagina se ne avevo per cantare. Alla fine della guerra, invece, quando arrivarono i russi a liberarci dal Lager, la voce probabilmente mi salvò la vita. Mi ammalati di tifo e non c’erano medicine per curarlo. Ero divorato dalla febbre e credevo proprio di morire. Un giorno i prigionieri organizzarono una festa per i soldati russi e io, nonostante la febbre, volli cantare alcune romanze. In prima fila c’era un capitano sovietico, amante di lirica, che si entusiasmò della mia voce e mi prese subito sotto la sua protezione. Il giorno dopo mi invitò a mangiare alla mensa ufficiali. Saputo che ero ammalato, mi fece visitare da un medico di sua fiducia e mi fece curare con delle medicine vere. Credo che quel capitano mi abbia veramente salvato l vita. E purtroppo non ho mai potuto ringraziarlo.

<<Mentre ero ancora ammalato, arrivò la tradotta che doveva riportarci in Italia. I miei compagni si prepararono per il viaggio, ma io non potevo partire in quanto ero ammalato e ricoverato in isolamento. Ma i miei compagni non vollero lasciarmi là. Vennero a prendermi di notte e mi nascosero sul treno. Così partii senza poter salutare quel capitano che mi aveva fatto curare. Se lo avessi fatto, mi avrebbe certamente impedito di viaggiare in quelle condizioni e sarei dovuto rimanere>>.

4Al ritorno hai naturalmente ripreso a studiare canto.

<<Immediatamente e con più grinta di prima. Dopo tutto quello che avevo sofferto, volevo spaccare il mondo. Conclusi i miei studi al Conservatorio di Parma e poi mi trasferii a Milano per tentare la fortuna. Milano era anche allora la capitale di tutte le iniziative, comprese quelle musicali.

<<Trovai alloggio in periferia. Nel ‘47, qualcuno mi disse che c’era la possibilità di debuttare nel “Barbiere di Siviglia” di Rossini. Non era una grande occasione. Si trattava di cantare in un teatrino parrocchiale, a Varedo, piccolo centro dell’hinterland milanese. Comunque era sempre un debutto e mi pagavano anche. Accettai.

<<Facemmo poche prove. Il direttore era un certo Lomonaco. L’orchestra era costituita da un contrabbasso, due violini, un flauto, il pianoforte e la grancassa. La quinte del palcoscenico erano di carta. Quando uscii con la chitarra per cantare “Largo al factotum”, il manico della chitarra si impigliò in una quinta io, preoccupato e confuso per il debutto, non me ne accorsi e tirai giù tutto. La gente rideva, fischiava, lo spettacolo venne sospeso e, dopo aver ricostruito lo scenario, si riprese tutto da capo. Per fortuna non accaddero altri incidenti e alla fine ebbi anche successo>>.

Così debuttasti come baritono.

<<Non solo debuttai, ma per tre anni continuai a cantare da baritono. In genere sostenevo parti secondarie, di secondo piano, ma cantavo molto>>.

Tu hai insegnato per molti anni: come ti spieghi il fatto che nessuno si fosse accorto che, dentro quella tua voce di baritono, si nascondeva una meravigliosa voce di tenore?

<<Eravamo in tanti cantanti giovani, tanti baritoni, tanti tenori, nessuno stava lì a sottilizzare troppo. L’importante era trovare una scrittura. Quando diventai un tenore famoso, tutti i direttori d’orchestra con i quali cantavo, da Serafin a Guarnieri, da Gavazzeni a Votto, Capuana, Ghione, tutti dicevano: “Lo sentivo io che aveva la voce di tenore”. Ma in realtà, quando facevo il baritono, nessuno mi disse mai niente>>.

Pensi che aver cantato per tre anni da baritono abbia nuociuto alla tua voce di tenore?

<<Al contrario, ha fatto molto bene. Ho rassodato le note gravi, preparando un solido trampolino di lancio per i futuri acuti. E’ come se, dovendo costruire un palazzo, avessi posto delle fondamenta massicce in cemento armato. Quando passai al registro di tenore avevo una struttura basilare di straordinaria potenza>>.

Chi ti ha convinto a compere quel passaggio?

<<Nessuno. Ho fatto tutto da solo. E in gran segreto anche. Mi accorsi che la voce faticava nei ruoli baritonali. Sentivo che non ero a mio agio in quel registro. Invece avevo una grande facilità nell’affrontare gli acuti. “Vuoi vedere che sono un tenore”, mi dicevo. E ruminavo dentro di me questo problema. Due erano le possibili soluzioni e tutte e due pericolose. O facevo finta di niente e continuavo a cantare da baritono con la certezza che sarei rimasto sempre un mediocre, un cantante di seconda categoria; oppure tentavo di passare al registro tenorile con l’incognita però di fallire e quindi di essere costretto a chiudere la carriera lirica e tornare a fare il formaggio. Decisi di tentare.

<<Eravamo nell’estate del 1950. Portai a termine gli impegni già presi e poi cominciai a lavorare per “registrare” la mia voce. Non avevo confidato i miei problemi a nessuno, neppure a mia moglie Adele. Approfittando che aspettava un bambino, la consigliai di andare a vivere da sua madre, così a Milano potevo dedicarmi alla mia “trasformazione”. Lavoravo da solo, senza maestri, con un metodo che mi ero inventato io. Avevo come supporto solo il diapason, cioè quel piccolo strumento acustico che produce una sola nota, il “la”, e serve per accordare gli strumenti. Me ne servivo per “accordare” le mie corde vocali. In tre mesi, guadagnando un quarto di tono al giorno, diventai tenore. Allora preparai due opere, “Aida” e “Andrea Chenier” e andai a farmi sentire da un impresario che mi propose delle recite di “Andrea Chenier” a Bari. “Mi sta bene”, risposi. Il 12 gennaio 1951, debuttati come tenore al Petruzzelli di Bari ottenendo un buon successo. Quello stesso giorno nacque mio figlio Maurizio. Cominciò così la mia carriera come tenore>>.

5Hai superato quel problema da solo: quindi come tenore sei un autodidatta.

<<Proprio così. Non ho avuto maestri e neppure insegnanti. Ho fatto tutto da solo. Ho studiato la mia voce, ho inventato il metodo per alleggerirla, per rafforzare gli acuti. Di fronte ad ogni difficoltà riflettevo e cercavo di trovare una soluzione tecnica che mi andasse bene.

<<A questo lavoro però, sia pure inconsciamente, mi ero preparato da tempo. Sembrava che dentro di me sentissi che avrei dovuto incontrare dei problemi del genere. Infatti, durante i tre anni di attività come baritono ebbi la fortuna di cantare accanto ai più grandi tenori del tempo, Gigli, Schipa, Pertile, Tagliavini, Masini, e continuavo a chiedere loro consigli e informazioni. Osservavo come vivevano, cosa mangiavano, quali abitudini di vita tenevano. Prima della recita, mi fermavo di fronte ai loro camerini per sentire quali vocalizzi facevano per scaldare la voce. Nei momenti di pausa, in albergo, ero sempre accanto a loro, li interrogavo. Insomma ero molto curioso di tutto. Ebbi modo così di ottenere consigli preziosi. Gigli mi parlava del diaframma, dell’importanza di saper usare il diaframma. Schipa mi decantava l’opportunità di rispettare il repertorio adatto alla propria voce. Ognuno mi dava un consiglio e io mettevo dentro la mia memoria. Al momento giusto tutte quelle informazioni diventarono una miniera d’oro per me. Posso dire di essere stato un autodidatta nel preparare la mia carriera di tenore, confortato però e aiutato dai consigli di quei miei grandi e illustri colleghi>>.

Hai dovuto fare una lunga gavetta prima di raggiungere la definitiva affermazione?

<<Un colpo di fortuna mi ha portato subito alla ribalta. A Bari, dove cantai “Andrea Chenier”, c’era il direttore generale della Rai, che fu molto colpito dalla mia voce. Venne a trovarmi e mi fece un discorso di questo genere: “Quest’anno, 1951, ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Verdi. Alla radio faremo una grande stagione lirica eseguendo tutte le opere del maestro di Busseto. Abbiamo bisogno di alcuni tenori giovani che siano pronti per sostituire i grandi interpreti nel caso vengano colpiti da qualche indisposizione. Io ti scritturo per sei mesi, a 50 mila lire al mese. In più ti faccio cantare in due opere: “Giovanna d’Arco” e “I Due Foscari”, con un cachet di 50 mila lire a opera”. Mentre lui parlava, mentalmente feci dei rapidi conti: 50 mila lire al mese per sei mesi facevano 300 mila lire; più altre cento mila per le due opere si arrivava a un totale di 400 mila lire. Una cifra per me iperbolica, inimmaginabile. Ero pieno di debiti. Vedevo risolti d’un tratto tutti i miei problemi economici. “Benissimo, accetto volentieri”, risposi con entusiasmo.

<<E quello fu il più bel contratto della mia vita. Anche perchè poi, in pratica, quasi tutti i tenori titolari delle varie opere si ammalarono e io li sostituii ottenendo successo e soprattutto facendomi conoscere nel mondo della lirica. Infatti, allora non c’era la televisione. Gli appassionati di lirica, gli addetti ai lavori, i direttori d’orchestra ascoltavano le opere che venivano trasmesse alla radio e così, in quei sei mesi mi feci conoscere da tutti, non solo in Italia ma anche all’estero, e la mia carriera partì come un razzo>>.

Verdi, quindi, ti portò fortuna e diventasti fin da allora il tenore verdiano per eccellenza.

<<Per la verità io cantavo di tutto. Avevo una grande facilità a imparare le opere in fretta. Per questo il mio repertorio divenne, in poco tempo, vasto: 74 opere. Avevo però una predisposizione per le opere di Verdi. Infatti, le ho cantate tutte, tranne due: “Otello” e “Falstaff”, per le quali non mi sentivo portato>>.

Quali opere verdiane hai cantato di più?

<<“Aida”, “Trovatore”, “Ballo in maschera” e “Forza del destino”. Ma ho affrontato molto, e con grande soddisfazione, anche “Luisa Miller”.

6I critici riconoscono che, nella storia del melodramma, il tuo modo di interpretare le opere verdiane ha segnato una svolta. Tu hai indicato percorsi nuovi, sensibilità diverse, attenzioni speciali. Chi ti ha guidato in questo ricerca?

<<Nessuno. Come ho detto, io sono un autodidatta. Quando dovevo studiare una nuova opera di Verdi, prendevo lo spartito e lo esaminavo attentamente, frase per frase. Mi sono accorto che Verdi ha indicato tutto quello che l’interprete deve fare. Frasi brevi, ma precise: “mezzavoce”, “due p”, “tre p”, “col canto”, “rinforzato”, “smorzando”, eccetera. Io riflettevo molto su quelle indicazioni e poi cercavo di eseguire la frase come era indicato. Tutto qui>>.

Quali sono i teatri dove hai cantato di più?

<<Metropolitan, Scala, Covent Garden, Staatsoper di Vienna, Arena di Verona, ma in pratica in tutti i teatri importanti del mondo>>.

Ricordo che è stato memorabile il tuo concerto di addio alla Scala nel 1993. Hai iniziato con una canzone popolare: “Non ti scordar di me”.

<<Quel teatro ce l’ho nel cuore. Anche se ho cantato molto di più al Metropolitan, la Scala è il teatro di casa mia. Iniziando quel concerto ho voluto subito dire al pubblico che non volevo essere dimenticato. E il pubblico si è commosso, come del resto lo ero anch’io.

<<Alla Scala avevo debuttato il 25 marzo 1953, quaranta anni prima. Non era stato un debutto fantastico. Anzi. Interpretavo un’opera nuova, il “Mas’Aniello”, di Jacopo Napoli, e il pubblico non la gradì. Continuava a rumoreggiare e a fischiare. Non era facile cantare in quella situazione perciò non ho un buon ricordo di quel debutto. Poi però sono arrivate le opere del mio repertorio “Aida”, “Trovatore”, “Forza del destino”, “Un ballo in maschera”, che mi hanno dato grandissime soddisfazioni.

<<Fin dall’inizio io ero cosciente di non essere un Adone. Bastava che mi guardassi allo specchio per capire. Non avevo il fisico di Corelli per intenderci. Quindi, se volevo incantare il pubblico dovevo farlo solo con la voce, con la magia del canto. E questa è stata la mia arma. Anche alla Scala spesso è accaduto che, dopo qualche aria, il pubblico balzava in piedi, in delirio. Sono momenti che non si possono dimenticare. Per questo, in quel concerto d’addio, ho voluto iniziare con la canzone “Non ti scordar di me”. Che poi ho ripetuto anche alla fine. La stessa canzone l’ho cantata anche nel concerto d’addio al Metropolitan e il giorno dopo il “Time” intitolava l’articolo di cronaca di quel concerto: “No, non ti dimenticheremo mai”>>.

Quanti concerti d’addio hai fatto prima di chiudere definitivamente la tua carriera?

<<Non lo so. Diversi. Ho fatto il giro dei vari teatri dove avevo cantato tante volte. In alcuni teatri sono poi tornato a fare un secondo concerto d’addio, e anche un terzo. A Zurigo ho fatto quattro concerti d’addio. All’ultimo, ho concesso sette bis. Alla fine è venuto fuori il sovrintendente, mi si è inginocchiato di fronte, sul palcoscenico, con un mazzo di fiori in mano e ha detto: “Questi sono per il suo cinquantesimo anniversario di carriera, ma anche per supplicarla di tornare l’anno prossimo”.

<<Per cinque anni sono passato da un teatro all’altro tenendo concerti di addio. Ogni volta giuravo a me stesso che era l’ultimo, ma poi, dopo qualche mese, ecco un nuovo appuntamento.

I direttori dei teatri mi chiamavano, io mi sentivo bene, la voce rispondeva, la voglia di cantare era grande, e allora andavo. Certo, non potevo ipotecare l’avvenire. Non firmavo contratti. Dicevo: “Se mi sentirò bene, verrò”. E sono andato avanti.

<<Un estraneo non può capire che cosa significhi per un artista smettere di cantare. Ci si sente improvvisamente finiti, morti. E’ come se ti tagliassero le mani, le gambe, la lingua. Per fortuna, io avevo la scuola che mi permetteva di continuare a interessarmi di lirica, di voci, di teatro, altrimenti guai. Ma ad un certo momento ho dovuto lasciare anche la scuola. La vita ha un suo giro e bisogna rassegnarsi>>.

7Qual è il segreto di tanta longevità della tua voce?

<<La tecnica. Come ti ho detto, nel periodo in cui cantavo da baritono continuavo a chiedere ai grandi del tempo come allenavano la loro voce. La loro esperienza è stata una regola di vita per me>>.

Quando insegnavi nella tua Accademia, avevi certamente dei “segreti” da trasmettere ai tuoi allievi.

<< Nell’arte del canto, non esistono “segreti”, ma esistono invece delle regole semplici e fondamentali. Primo: imparare a respirare e a usare il diaframma. Questo è basilare. E lo si apprende soprattutto osservando e ascoltando chi è veramente esperto nell’arte di questo esercizio. Secondo: rispettare il proprio ruolo vocale. Un campione di atletica leggera specialista nei cento metri non si metterà mai a gareggiare anche sul miglio: sarebbe la sua fine. Così un cantante lirico. Una volta c’erano le categorie e venivano rispettate con scrupolo. Solo per il registro tenorile avevamo: il tenore di grazia; il tenore leggero; il tenore lirico leggero; il tenore lirico; Il tenore lirico spinto; il tenore drammatico. E’ estremamente importante non forzare la voce e quindi non uscire mai dal proprio ruolo vocale. Purtroppo, oggi, questa regola viene ignorata. Anche perchè molti direttori artistici e direttori d’orchestra non se ne intendono di voci. La conseguenza è drastica. Ogni tanto sentiamo parlare di un giovane con una bella voce. Dopo cinque sei anni non lo si sente più nominare. Dov’è finito? Lo hanno fatto cantare opere non adatte ai suoi mezzi e si è rovinato.

<<Una terza regola importante è quella del regime di vita. Il cantante deve condurre un’esistenza serena, regolare, morigerata, rispettosa dei cicli biologici, insomma piena di sacrifici.

<<Un giorno ero a pranzo con la figlia di Gigli. In un tavolo accanto c’era suo padre con la moglie. Alla fine del pranzo vedevo Gigli che scriveva. “Tuo padre prende appunti”, disse a Rina. E lei: “No, ha scritto sul foglietto un ordine per il cameriere: il giorno della recita non parla mai, neppure una parola”.

<<Ero a Buenos Aires. Verso le dieci e trenta uscii dall’albergo per fare una passeggiata e incontrai la grande Ebe Stignani con il marito. “Signora, anche lei va a passeggiare?”. “No, vado al ristorante”, rispose. “A quest’ora?”. E lei mi raccontò che il giorno della recita pranzava sempre nove ore prima di andare in palcoscenico e faceva un pranzo molto leggero. Glielo avevano insegnato i vecchi cantanti, trent’anni prima.

<<Era un periodo in cui io accusavo piccoli disturbi alla voce: un po’ di catarro, pesantezza, opacità. Andavo a pranzo alle due e mangiavo forte, perchè pensavo che poi, alla sera, alla recita, avrei avuto bisogno di tante energie. Volli provare il consiglio di Ebe Stignani. Cominciai ad andare a pranzo alle undici e mangiare leggero. La voce tornò fresca, aerea, squillante. Scoprii che si canta meglio a digiuno. Da allora il giorno della recita ho sempre pranzato alle undici del mattino.

<<Un giorno ero a Salisburgo per interpretare il “Requiem” di Verdi al celebre Festival. Dirigeva Herbert Von Karajan. Poichè avevamo avuto poche prove, il maestro ci chiese di fare una ripassatina anche il giorno della recita, alle undici del mattino. “Maestro”, gli dissi “io non posso venire”. E, con grande sincerità, gli raccontai che avevo preso l’abitudine di mangiare, il giorno della recita, una bistecca proprio a quell’ora. Se avessi cambiato orario potevo averne un danno. “Per carità”, disse Karajan “vai a mangiare la bistecca, ti dispenso dalla prova”. Alla sera feci una recita stupenda. E mentre uscivamo a ringraziare il pubblico che non finiva di applaudire, Karajan, battendomi una mano sulla spalla, mi disse: “Continua sempre a mangiare la tua bistecca alle undici”>>.

8Sei stato molto amico di Karajan ed hai cantato cose eccelse diretto da lui.

<<Il maestro Karajan aveva molta stima di me e per otto anni abbiamo lavorato bene insieme poi i nostri rapporti si sono bruscamente guastati. Eravamo a Berlino, ultima recita di “Trovatore”. Venne in camerino un assistente di Karajan e mi disse che il maestro mi voleva alla Scala nei “Pagliacci”. Non avevo mai interpretato quell’opera e non me la sentivo di debuttarla alla Scala, perciò rifiutai. “L’ho ha detto il maestro”, ripetè, meravigliato, l’assistente. “Un momento”, risposi “adesso parlerò anch’io con Karajan”. Poco dopo il grande direttore era nel mio camerino. “Carlo”, disse “perchè non vuoi fare i Pagliacci?”. “Maestro, non vorrei debuttare in quest’opera alla Scala”, obiettai. “Non ti devi preoccupare”, disse lui. “Ti guido io”. “Ma sono io che canto e non voglio rovinarmi”. Si arrabbiò. “Se tu non accetti di fare i Pagliacci”, disse con tono offeso “non canterai mai più con il maestro Karajan” e uscì sbattendo la porta. In quel momento tornai ad essere il “casaro” di Busseto, il contadino che non accetta soprusi di nessun genere. Balzai alla porta, la aprii, presi Karajan per il bavero del frac e lo tirai di forza nel camerino. Chiusi la porta e fissando il maestro negli occhi gli dissi: “Lei è un grande direttore e mi dispiace non cantare più con lei. Ma io per lei non mi rovino. E non mi faccio neppure sbattere la porta in faccia”. Mi girai dall’altra parte. Lui uscì e non lo vidi più. Avevo un altro contratto con il Festival di Salisburgo, che fu naturalmente cancellato>>.

Hai, quindi, litigato con Karajan. Eppure ho sempre sentito dire che eri un’eccezione nel tuo ambiente proprio perchè non hai mai avuto scontri con nessuno dei tuoi colleghi>>.

<<E’ vero, sono sempre andato d’accordo con tutti. Anche con tutti i direttori d’orchestra. Ma non significa che mi lasciassi mettere i piedi sulla testa. Si dice che i tenori tra di loro si sbranino. Io sono stato amico di tutti i tenori del mio tempo e uno dei più bei regali ricevuti nel corso della carriera me lo ha fatto proprio un tenore, Mario Del Monaco.

<<Cantavo a Parigi “Manon Lescaut” di Puccini. Dopo “Guardate, pazzo son” nel terzo atto, ho sentito partire dal pubblico un “Bravo” che sembrava l’esultate dell’”Otello”. Vado in camerino per l’intervallo. Bussano, apro e arriva Mario Del Monaco. “Lei mi ha dato un’emozione grandissima. Mi ha fatto capire come deve cantare Des Grieux. A novembre sarò al Metropolitan di New York con due opere, “Aida” e “Trovatore”. Mi piacerebbe farla conoscere in quel teatro. Per questo, se lei accetta, le cedo volentieri due recite”. “Oh, grazie, grazie, è troppo gentile”, risposi. Ero ormai abituato a sentire tante parole senza che fossero poi seguite da fatti e dimenticai subito quello che mi aveva detto Del Monaco.

<<A settembre cantavo a Livorno. Arriva nel camerino il signor Bauer, che era il rappresentante in Europa di Mister Rudolf Bing, sovrintendente del Metropolitan. Mi fece i complimenti e poi disse: “Ho una proposta. Mario del Monaco a novembre le cede due recite al Metropolitan: una di “Aida” e una di “Trovatore”. Lei dovrebbe trovarsi a New York ai primi di novembre per assistere a un paio di spettacoli e vedere come sono stati allestiti. Ci pensi e mi dia una risposta”. Ricordai l’incontro a Parigi con Del Monaco e rimasi stupefatto. Dissi a mia moglie: “Io ci vado. Per lo meno faccio un viaggetto in America”.

<<Arrivai a New York, seguii due recite e il 13 novembre mi presentai in camerino per prepararmi al mio debutto in quel teatro. In camerino trovai Mario del Monaco che era venuto a darmi qualche consiglio. Volle truccarmi personalmente e aiutarmi a indossare il costume di Radames, che era ancora quello usato da Caruso. Feci una recita magnifica. Dopo il primo intervallo arrivò Mister Bing con un contratto per tre anni. Sarei certamente arrivato lo stesso al Metropolitan, ma, sul piano umano, mi ha fatto molto piacere essere presentato in quel modo da Mario Del Monaco>>.

9Sei il cantante dei record: 50 anni di carriera, 37 stagioni al Metropolitan, 19 all’Arena di Verona, 12 alla Scala di Milano, hai cantato in tutti i più grandi teatri del mondo e interpretato il “Requiem” di Verdi a 73 anni e lo hai inciso a 74. E, nella vita privata, quali sono le conquiste di cui vai fiero?

<<La mia famiglia. Sono sempre stato molto legato alla famiglia. Nonostante i successi e i trionfi in palcoscenico, le gioie più belle lo ho avute dalla famiglia. Prima di tutto da mia moglie, Adele, che è sempre stata accanto a me, mi ha seguito dappertutto, aiutandomi a sopportare i grandi sacrifici che questo mestiere impone. Poi i figli, che sono cresciuti bene, uno è medico e l’altro dirige il nostro l’albergo e ristorante “I due Foscari”. E adesso anche i nipotini, due, fantastici: Marta e Carlo. Grande è stata la mia carriera artistica, ma più grande la mia vita privata>>.

Hai sempre detto di esserti fatto da solo, di non aver avuto maestri nella tua formazione artistica. Nel concerto d’addio alla Scala nel ‘93 però hai fatto un pubblico ringraziamento tua moglie, affermando che senza di lei non saresti diventato Bergonzi.

<<Ecco, devo ammettere che l’unica maestra che ho avuto nella carriera artistica è stata proprio mia moglie Adele. Ha un orecchio formidabile. Non le sfugge niente. Ed è di una severità inaudita. Non mi ha mai perdonato niente. Facevo delle recite magnifiche, magari con una sola nota presa male o un po’ sporca, e lei arrivava nel camerino: “Un disastro, hai cantato male, quella nota non dovevi farla in quel modo”. Mi sentivo morire, la cacciavo via, ma dentro di me le davo ragione e mi sforzavo per rimediare. Davanti a me non mi ha mai lodato. Ma, quando non c’ero, mi difendeva con i denti e diceva a tutti che ero il migliore. Io, da parte mia, non mi sono mai rassegnato ai suoi tremendi rimproveri, ma so che, senza di quelli, non sarei arrivato dove sono arrivato. Siamo veramente una coppia formidabile, nell’arte e nella vita>>.

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Natuzza – il segreto di una vita

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natuzzaDEDICATO A NATUZZA EVOLO, GRANDE MISTICA CALABRESE

Il primo di novembre ricorrono 5 anni dalla morte di Natuzza Evolo. Quel giorno, a Paravati, in provincia di Vibo Valentia, paese dove Natuzza nacque e dove visse, ci sarà il raduno nazionale dei “cenacoli di preghiera” che portano il suo nome. E il vescovo della diocesi, celebrando una solenne commemorazione nel santuario che lei ha voluto in onore della Madonna, annuncerà l’inizio del processo per la sua beatificazione.

Natuzza, donna sposata, madre di cinque figli, proveniva da una famiglia così poteva da non aver avuto neppure la possibilità di frequentare le scuole elementari. Non sapeva leggere né scrivere, ma i potenti della terra andavano a chiederle consigli . Professori, docenti universitari, medici, scienziati si intrattenevano a conversare con lei constatando che era a conoscenza perfetta della scienza che loro professavano e insegnavano.

Fin da bambina dimostrò di possedere straordinari doni carismatici. In particolare, quello di poter “comunicare” con le persone dell’aldilà. Con la più grande semplicità, lei diceva che “vedeva a parlava con i morti”. Questa dono carismatico fu sempre presente in lei in forma costante e clamorosa, e richiamava a Paravati, ogni giorno, centinaia di persone, provenienti anche dall’estero, desiderose di poter “comunicare” con i loro cari defunti. Natuzza fu un “ponte” misterioso e meraviglioso, attraverso il quale centinaia di migliaia di persone dialogarono con i loro cari nell’aldilà.

E’ stata la più grande testimone del nostro tempo della “vita oltre la vita”. Una autentica missionaria della fede nella concretezza della vita che viene dopo l’esistenza terrena: una vita “vera”; anzi “la vita vera”, in anima e corpo, che non avrà mai fine. Per questo i santi chiamavano la morte “dies natalis”, cioè “giorno della nascita” in quella vita vera senza fine.


Intervista a Renzo Allegri

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natuzzaNatuzza Evolo: profetica testimone della “vita oltre la morte”

Renzo Allegri racconta il suo ultimo libro dedicato alla mistica di Paravati, frutto dei loro incontri personali e delle testimonianza raccolte tra chi la la considerava santa già in vita

Natuzza Evolo, “la mistica di Paravati”, diventerà santa. Per lei è già iniziato il processo di beatificazione, come ha annunciato il vescovo di Mileto, monsignor Luigi Renzo, in occasione del quinto anniversario della sua morte, avvenuta il 1° novembre del 2009. Nata il 23 agosto 1924, appartenente a una famiglia poverissima, Natuzza era analfabeta, perché non aveva mai avuto la possibilità di andare a scuola. Era sposata e aveva cinque figli. Fin da bambina, in lei si manifestarono fenomeni inspiegabili che la rendevano una donna unica. Un “caso” che incuriosiva e interessava la gente semplice ma anche gli scienziati e i teologi. Per molti era un “fenomeno paranormale”, per molti altri una santa già in vita. Paravati, il piccolo paese calabrese dove Natuzza nacque e visse, era una sconosciuta frazione di Mileto. Ora, con lei, è diventato un importante Centro di spiritualità.

Su Natuzza, soprattutto dopo la sua morte, sono stati scritti innumerevoli articoli, libri, saggi. L’ultimo, in ordine di tempo, si intitola “Natuzza Evolo, il segreto di una vita”, ed è stato pubblicato dalla casa editrice cattolica Ancora. E’ firmato da Renzo Allegri, giornalista noto per la sua vasta produzione letteraria che comprende oltre cinquanta titoli, alcuni dedicati alle grandi guide spirituali del nostro tempo: Madre Teresa, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Gianna Berretta Molla, e soprattutto Padre Pio, al quale Allegri ha dedicato nove volumi da uno dei quali è stata tratta la fortunata fiction televisiva, con protagonista Sergio Castellitto. A Renzo Allegri abbiamo posto alcune domande.

6-allegriPerchè questo suo libro su Natuzza Evolo?

Natuzza è una persona che mi ha sempre molto affascinato. Penso che in lei sia nascosto un grande tesoro di insegnamento spirituale, per ora ancora inesplorato.

L’ha conosciuta personalmente?

Certo. L’ho incontrata diverse volte, a cominciare dal 1977, cioè 37 anni fa. Allora nessun giornale, nessun scrittore, nessuno dei mezzi di informazione si interessavano a lei. Ma la sua fama era grande egualmente, diffusa attraverso  il “passaparola”. Si diceva possedesse tutte le qualità e le doti che comu­nemente vengono attribuite ai sensitivi, ai medium, ai guaritori eccetera. In realtà, però, la sua esistenza quotidiana era intrisa da una quantità incredibile di fenomeni non paranormali, ma di natura mistica: bilocazioni,  estasi,  visioni,  sudorazioni di sangue, stimmate, “emografie”, e soprattutto da un “carisma” speciale che la caratterizzava, la possibilità  di vedere e di parlare con le anime delle persone defunte. Ogni giorno arrivavano a Paravati 200-300 persone, che andavano a parlare con lei ottenendo sempre grandi consolazioni e grazie. Questi dettagli mi vennero raccontati da un avvocato, mio amico. Incuriosito, nell’ottobre del 1977 andai a Paravati. Vi rimasi una settimana. Conobbi Natuzza, e conversando con lei e parlando con chi la conosceva bene, scoprii  che quella donna viveva, con sconcertante spontaneità, in continuo contatto con il soprannaturale. Ogni atto, ogni azione della sua esistenza erano permeati di fede semplice e vera. Ero partito  da Milano pensando anch’io di incontrare una “grande sensitiva” e tornai convinto di aver conosciuto una “grande santa”.

Scrisse degli articoli esprimendo queste sue convinzioni?

Scrissi una serie di articoli. Allora ero inviato di “Gente”, che era il settimanale delle famiglie, con milioni di lettori. Per oltre un mese, Natuzza fu protagonista nelle pagine di quel settimanale. Raccontai la sua storia, così come lei stessa me l’aveva riferita. Aggiungendo tante testimonianze di persone che ogni giorno constatavano fatti prodigiosi. Quegli articoli ebbero un impatto enorme sul pubblico. Si può dire che attraverso quegli articoli Natuzza venne conosciuta dal grande pubblico.  E venne conosciuta bene, cioè in modo corrispondente al vero.  Quegli articoli ebbero, infatti,  l’approvazione piena di tutte le persone che avevo intervistato e di  Natuzza stessa che,  essendo analfabeta,  se li era fatti leggere dai familiari.   In seguito, andai altre volte a Paravati, sempre come giornalista, e Natuzza mi ha sempre trattato con affetto, facendomi conoscere anche la sua famiglia. Nel 1998, in occasione di una gande festa in suo onore, volle che fossi io a tenere il discorso di circostanza.

Quali sono le caratteristiche di questo suo libro su Natuzza?

E’ un libro che si riallaccia agli articoli scritti nel 1977. A distanza di tanto tempo, ritengo che quegli articoli siano dei documenti molto importanti. Non solo per le testimonianze raccolte da persone che avevano conosciuto Natuzza bambina e che ora non ci sono più. Ma soprattutto perché Natuzza,  ancora estranea alle pressioni e alle curiosità dei “mass media”, si confidava con la più grande semplicità. In quei miei articoli, mi limitai a fare un meticoloso lavoro di trascrizione dei racconti che Natuzza mi fece riguardo le sue esperienze mistiche. Sono quindi  confidenze dirette e straordinarie. Ho voluto riprenderli e riproporli,  cercando di ricostruire nei dettagli quella mia indimenticabile avventura giornalistica.

Qual era l’atteggiamento ufficiale della Chiesa quando lei conobbe Natuzza?

Era un atteggiamento “distratto”. La Chiesa ha il compito di preservare il “popolo di Dio” da pericoli ideologici devianti. E lo fa con il massimo impegno, a volte con rigore. All’inizio, quando Natuzza era una bambina, il vescovo del luogo, monsignor  Paolo Albera,  informato, rimase molto colpito. Fu anche testimone diretto di qualcuno di quei fatti inspiegabili, ed  espresse giudizi positivi. Ma per avere un quadro sicuro della situazione, ricorse al consiglio di un famoso scienziato del tempo,  Padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Prima di diventare religioso, Gemelli era medico,  psichiatra, psicologo, ricercatore scientifico di fama, ma ateo. Convertitosi,  aggiunse al proprio grande patrimonio scientifico, quello religioso-spirituale, diventando il più preparato esponente della scienza cattolica  di allora. Mantenne, però, sempre una istintiva avversione per la fenomenologia di carattere mistico, in quanto, secondo lui, poteva spesso essere soltanto frutto del subconscio. Diceva che i manicomi erano pieni di stimmatizzati e visionari. Affermava che l’unico stimmatizzato vero della storia era stato San Francesco d’Assisi. E fu lui a giudicare, nel 1919, che le stimmate di Padre Pio erano frutto di isterismo. Lo stesso giudizio espresse, nel 1940, per la fenomenologia di Natuzza. Al vescovo che gli aveva inviato un ampio dossier sul caso, rispose che  la ragazza era isterica e doveva essere curata in un ospedale psichiatrico.  Natuzza venne quindi   ricoverata in un manicomio a Reggio Calabria. Ma, dopo una ventina di giorni fu rispedita a casa perché  “perfettamente sana di mente e di corpo”.

Il giudizio di Padre Gemelli, tuttavia, fu “condizionante”. L’autorità di Gemelli era mitica. Il vescovo Albera emise un documento in cui diceva che quanto accadeva in Natuzza non aveva niente a che fare con il soprannaturale. I successori di Albera si attennero a quel giudizio, ma senza mai intervenire in modo pratico.  Per 40 anni, Natuzza fu ufficialmente giudicata una  “sensitiva”. Ma  per la gente era una santa. Quando la conobbi, nel 1977, il giudizio delle autorità ecclesiastiche era, ufficialmente,  ancora quello emesso dal vescovo Albera nel 1940. Però, tutti  i pellegrini che ogni giorno arrivavano a Paravati la giudicavano una santa. E tra essi anche sacerdoti, religiosi, vescovi. Il parroco di Paravati di allora,  don Salvatore Sangeniti, mi disse apertamente che, per lui, quella sua parrocchiana era un esempio di grande santità. Mi disse che era un donna poverissima, aveva cinque figli da mantenere, suo marito era un falegname che non sempre trovava lavoro. Lei dedicava gran parte delle sue giornate alla gente che accorreva in cerca di aiuto. E lo faceva del tutto gratuitamente. Se qualcuno, che magari aveva ricevuto un favore enorme, come la guarigione da malattie dichiarate inguaribili dai medici,  e voleva a tutti i costi sdebitarsi lasciarle un offerta, rifiutava  sempre e diceva:  “Se volete fare un’offerta,  andate  in chiesa e fatela al Signore: è stato Lui a guarirvi”.  Fu sempre intransigente su questo, non volle mai niente da nessun.

Don Salvatore aveva assistito anche al fenomeno delle stimmate che si manifestavano in Natuzza durante la Settimana santa, in particolare il Venerdì santo.  Mi disse: “Per tutto il giorno Natuzza è assistita da medici, perché si teme che possa morire da un momento all’altro. Sembra proprio che si trovi in agonia. Il suo corpo diventa tutto una piaga, Le gocce di sangue, cadendo sul guanciale e sul lenzuolo provocano immediatamente quei misteriosi disegni a soggetto sacro chiamati “emografie”. Ho assistito tanti moribondi ma non ho mai provato un’impressione così forte come vedendo Natuzza in quelle condizioni”.

Nel 1979 arrivò nella diocesi da cui dipende Paravati un nuovo vescovo, monsignor Domenico Cortese. Fu lui a cambiare la situazione.  Era convinto che in Natuzza operasse Dio. A poco a poco, senza emanare nuovi documenti giuridici, ma dimostrando in pratica la sua stima verso quella donna, cancellò la vecchia diffidenza  ecclesiastica aprendo le porte a una comprensione totale. E fu lui che permise e sostenne la grande opera socio-spirituale che, nel nome di Natuzza, è sorta a Paravati>>.

Nei libri, Natuzza viene spesso definita una “povera contadina analfabeta del sud”…

E’ un giudizio errato. Che contiene anche un pregiudizio di sapore razzista.  E’ vero che Natuzza era analfabeta.  Ma i doni carismatici che aveva ricevuto e le esperienze che ogni giorno faceva a contatto le persone più diverse, costituirono per lei una scuola unica.  Di un valore inestimabile.   Ascoltare, valutare, cercare di capire, essere concentrata nel percepire i suggerimenti interiori, comportava  un impegno massacrante, che richiedeva uno  sforzo fisico, emotivo e spirituale,  elevatissimo.  E poiché un simile impegno era continuo, quotidiano, fu per lei una “palestra ascetica” straordinaria, una “università” senza pari. Si dice che noi siamo il risultato della nostre esperienze. E in gran parte è vero. Le esperienze arricchiscono in modo  esponenziale l’intelligenza, l’intuizione, la sensibilità, la capacità  di capire anche i segni estremi. Natuzza era immersa in esperienze del genere e la sua intelligenza le elaborava, trasformandole in patrimonio cognitivo di altissima qualità. Professionisti, medici, avvocati, sacerdoti, scienziati,  cioè soggetti  di elevata cultura,  parlando con lei si meravigliavano nel constatare che, pur essendo analfabeta,  Natuzza affrontava  conversazioni  teologiche, filosofiche, scientifiche, con estrema facilità,  non sbandierando teorie, non facendo dissertazioni erudite, ma spiegando chiaramente i problemi e indicandone la soluzione, che risultava sempre la più giusta. Non era certo una “povera contadina analfabeta del Sud”!

Secondo lei, quali sono le caratteristi peculiari della santità di questa donna?

Penso che Natuzza, quando era in questo mondo,  sia stata una grande “missionaria” del nostro tempo riguardo alla “vita”. “Vita” intesa non solo come l’esperienza nel tempo, ma nel suo significato integrale, e cioè “vita eterna”, iniziata nel tempo ma che non finirà mai. Soprattutto con quel suo dono carismatico di “vedere e parlare con le anime dei trapassati”,  Natuzza è stata la più grande testimone della “vita che continua oltre la morte”.  Le migliaia di episodi questo genere che si verificarono nel corso della sua esistenza e che ebbero come testimoni altre migliaia di persone esistenti in questo mondo, sono una documentazione  imponente e inoppugnabile. Parlandomi di quei fatti, lei stessa mi ha più volte ripetuto:  “Sono i morti che vogliono comunicare. Desiderano far sapere ai loro cari che sono vivi”. Anche le bilocazioni, altro fenomeno carismatico eclatante nell’esistenza terrena di Natuzza, potrebbero essere intese come  “indicazione profetica”,  per farci intuire  “come” potrebbe essere la vita dopo la morte. Non uno stato evanescente, astratto, imbalsamato, lontano dalla nostra concezione, ma  una  “vita” essenzialmente “vera e  reale” anche se invisibile ai nostri occhi mortali. Natuzza non ha scritto libri, non ha tenuto conferenze, non ha fatto prediche, ma ha “parlato” con i fatti, con migliaia e migliaia di fatti inspiegabili dei quali sono stati testimoni milioni di persone. E tutti quei fatti, (visioni, bilocazioni, emografie, colloqui con i trapassati eccetera) in pratica convergevano verso un fine unico: testimoniare la realtà della “vita oltre la morte”.

Fonte articolo ZENIT

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L’uomo che cambiò Fidel Castro

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Raul Castro presidente della Repubblica cubana, in Vaticano, da Papa Francesco. Sono caduti e stanno cadendo muri e muraglie di ogni genere. Il dialogo e il disgelo conquistano. E mentre avviene questo incontro storico, il mio pensiero va al professor Alfredo Luciani. Uomo sconosciuto al grande pubblico, schivo, riservato, lontano da ogni forma di pubblicità e timido anche. Ma è un personaggio di grandissimo valore e di grandissimo peso sociale. E’ lui il profeta che 30 anni fa, esattamente nel 1986, pose le prime basi per questo incontro. E’ lui che mise nella mente e nel cuore di Fidel Castro e dei suoi collaboratori il seme di un nuovo modo di ragionare.

Alfredo Luciani<<Nel 1986 ero andato a Cuba per tenere alcune conferenze>>, mi raccontò anni fa il professor Luciani. <<Conobbi vari intellettuali, professori universitari, filosofi, persone molto legate a Fidel Castro. Avevo da poco pubblicato un mio libro “Cristianesimo e movimento socialista in Europa 1789/1848>>, un’opera in cinque grossi volumi, che aveva avuto ottime recensioni in Italia, e pensai di farne un presente a Fidel Castro. Lui gradì il dono e fece recensiere l’opera dal suo filosofo di fiducia, Felipe Carneado, un personaggio chiave a Cuba, compagno di Fidel fin dai tempi della rivoluzione, membro del Comitato centrale e della direzione e responsabile per gli affari religiosi. Carneado si entusiasmò per la mia opera. Ne parlò il professor Fernando Rojas Arabs, rettore dell’università dell’Avana. Cominciammo a scambiarci messaggi, opinioni, libri. All’inizio del 1988 fui invitato a Cuba per tenere una serie di conferenze>>.

Era nata un’amicizia, un dialogo che si irrobustiva sempre più e nel 1990 il professor Luciani tornò a Cuba per un impegno storico. D’accordo con i suoi amici cubani e con il beneplacido di Fidel Castro, era riuscito a organizzare un “incontro ufficiale tra studiosi cattolici e studiosi cubani”.

Il convegno si tenne nel gennaio 1990. Il professor Luciani arrivò a Cuba con una delegazione composta da sei tra i più importanti teologi europei: il gesuita fran¬cese padre Jean-Yves Calvez della rivista Etudes: il francescano portoghese padre Manuel Da Costa Freitas, professore di filosofia all’università Cattolica di Lisbona; il domenicano spagnolo padre Jordan Gallego, professore di teologia a Valenza; il gesuita italiano padre Angelo Macchi, direttore della rivista Aggiornamenti Sociali, e il saveriano padre Giovanni Battista Mondin, docente di filosofia all’università Urbaniana di Roma. La delegazione cubana era molto più numerosa, comprendeva una ventina di persone.

<<Fu un seminario di straordinaria importanza>>, mi disse il professor Luciani. <<Discutemmo sulla concezione dell’uomo, della libertà, della società economica, dei rapporti tra Stato e società, tra cultura e religione. Le conclusioni del convegno ebbero un grande rilievo sulla stampa cubana. Tutti gli atti vennero inviati alle autorità religiose e politiche. Credo sia stato quel convegno a muovere definitivamente le acque>>.

Infatti, ci furono subito chiari segni di cambiamento a Cuba. Nel 1991, Fidel Catro aprì le porte del Partito comunista anche ai cattolici; cominciò a permettere che la Chiesa avesse attività sociali, che operasse cioè fuori del “recinto sacro”; permise il sorgere di riviste cattoliche.

Il professor Luciani ha continuato il suo lavoro sotterraneo, e mano a mano che il dialogo diventava interessante, concreto, lui spariva, lasciando posto ai rappresentanti ufficiali. Com’è nel suo stile e nei suoi propositi.

Per portare avanti questi suoi ideali di una nuova politica, il professor Luciani ha fondato una associazione laica che si chiama “I missionari della carità politica”. <<Ha lo scopo>>, mi ha spiegato il professore << di promuovere la giustizia e l’amore all’interno di ciascuna nazione e nei rapporti delle nazioni tra loro; di stimolare tra le diverse religioni un dialogo delle opere; di contribuire a rendere la politica un laboratorio trasparente di idee, di proposte, di progetti e di realizzazioni conformi alla dignità e ai diritti fondamentali della persona e dei popoli>>. Nel 1996 il Pontificio Consiglio per i Laici ne ha decretato il riconoscimento come associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio.

E’ formata da poche persone, che lavorano con uno stile del tutto nuovo, totalmente avulso delle mode del nostro tempo ammalate di apparenza, di pubblicità, di consensi, di potere, di prestigio. Sono persone sconosciute ai media, ma così ricche di valori interiori da renderle capaci di cambiare, a volte, anche il corso della storia.

Renzo Allegri

La passione di Padre Pio

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51UGs7HMZSL._SX323_BO1,204,203,200_Inchiesta con documenti inediti e segreti sulla persecuzione inflitta al Santo dalle gerarchie ecclesiastiche

Tutto ciò che riguarda Padre Pio è stato sviscerato dai mass media, soprattutto dopo la proclamazione della sua santità. Solo un aspetto della sua vita resta ancora in ombra: la persecuzione cui fu sottoposto da parte della Chiesa.

Una persecuzione che rimane un enigma. Iniziata subito dopo la comparsa delle stigmate sul corpo del religioso, è durata, sempre più accanita, per il resto della sua vita e per diversi anni anche dopo la morte. Padre Pio visse in un continuo dissidio. Tremendo. Martirizzante.

Furono molte le persone umane fallibili che, all’interno della Chiesa cattolica, ebbero il compito di giudicare la sua vita, la sua condotta e i suoi fenomeni mistici, e che si sbagliarono clamorosamente. La cosa grave sta nel fatto che quelle persone erano ai vertici di vari dicasteri vaticani, in particolare il Sant’Uffizio, il supremo tribunale per la difesa della fede.

“Dimenticare le sue sofferenze significa tradirlo” mi disse un giorno Fra Modestino, un confratello di Padre Pio, considerato, dopo la morte dello stigmatizzato, il suo erede. Non è possibile pensare Gesù senza croce; non è possibile pensare Padre Pio senza sofferenze.

Questo libro intende soffermarsi soprattutto sul racconto di queste sofferenze “morali e spirituali”. E sulle persecuzioni che ne furono causa e che il religioso subì per tutta la vita.

Il racconto si basa su migliaia di documenti conservati nell’Archivio segreto del Vaticano e in quello del Sant’Uffizio. Ma anche documenti degli archivi dell’Ordine dei Frati Cappuccini, dei Cappuccini della Provincia di Foggia e di archivi privati di laici che ebbero ruoli estremamente importanti in questa vicenda. Molti di questi sono inediti.

Renzo Allegri

Il grande viaggio di Padre Pio

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51UGs7HMZSL._SY264_BO1,204,203,200_QL40_Pellegrino a Roma, per il Giubileo della Misericordia 2016

Intervista di Tony Assante a Renzo Allegri

Il 3 febbraio (giorno a me molto caro), la salma di Padre Pio lascia San Giovanni Rotondo per andare, nello spirito del Giubileo della Misericordia, pellegrina a Roma. Un viaggio-evento, voluto da Papa Francesco.  Padre Pio  dedicò l’intera sua esistenza terrena a “rappresentare” Dio Misericordioso nel  sacramento della Confessione, ed è quindi un grande testimone di questo Giubileo. .

Il viaggio sta suscitando vivissimo interesse, soprattutto tra gli innumerevoli devoti del “frate con le stimmate”. In particolare, tra gli iscritti ai “Gruppi di preghiera Padre Pio”, ai quali Papa Francesco dedicherà una udienza speciale il giorno 6 febbraio in Piazza San Pietro.

L'urna contenente il corpo di Padrte Pio, attorniata da fedeliPer  avere dettagli precisi su questo viaggio e sui significati storici che racchiude, abbiamo parlato con un noto studioso di padre Pio, il giornalista e scrittore Renzo Allegri, autore di dieci volumi sul grande santo, pubblicati dalla più importante casa editrice italiana, Mondadori, e tradotti in tutto il mondo. Il suo ultimo libro, che  si intitola “La Passione di padre Pio”, è uscito un mese fa, sempre pubblicato da Mondadori, <<Padre Pio >>, dice Renzo Allegri <<non fu un famoso predicatore e neppure uno scrittore, un conferenziere, un professore di teologia: fu un confessore. Trascorreva nel confessionale fino a 15-18 ore al giorno, e arrivavano penitenti da tutto il mondo. Per questo, Papa Francesco ha voluto che le reliquie del suo corpo mortale fossero presenti a Roma, in San Pietro, nel corso del Giubileo. Proprio per richiamare alla mente dei credenti che questo Giubileo ha il significato specifico della riconciliazione con Dio. Celebra la  parabola del Figliol prodigo, che ritorna al Padre pentito dei suoi errori, per iniziare una vita nuova>>.

Quanto si fermerà in San Pietro il corpo di  Padre Pio?

<<Solo alcuni giorni. Si tratta di una presenza simbolica. Ma il corpo di Padre Pio non andrà “pellegrino” solo a Roma. Nello spirito del Giubileo della Misericordia, questo suo viaggio,  che si compirà dal 3 al 16 febbraio, svolgerà una straordinaria missione in diverse altre località del Sud. Tra andata e ritorno dalla Città Eterna, sono previste altre tappe, che stanno mobilitando migliaia e migliaia di persone. Nelle varie località  dove il Corpo verrà esposto, confluiranno pellegrini, ci saranno cerimonie religiose, veglie di preghiera, processioni, e il tutto verrà diffuso dai giornali, dalle televisioni e dai vari altri mezzi di comunicazione. In questo modo, per due settimane il Padre sarà presente nell’opinione pubblica e potrà far  giungere il suo messaggio a milioni di persone in tutto il mondo>>.

Cripta del nuovo Santuario dedicato a Padre Pio a San Giovanni Rotondo, dove il corpo del Santo +¿ abitualmente esposto al pubblico.Quali sono le principali tappe del viaggio?

<< Il 2 febbraio il corpo del Padre sarà tolto dalla cripta del Santuario a lui dedicato a San Giovanni Rotondo e portato nella Basilica superiore. Lì “assisterà” alle cerimonie per la “Giornata mondiale della vita consacrata” che si svolgeranno quel giorno con la partecipazione di religiosi e religiose provenienti da tutta Italia. Il 3 mattina, partenza da San Giovanni e, alle 9,30, breve sosta a San Marco in Lamis, cittadina dove il Padre soggiornò da giovane. Il viaggio riprenderà dopo un’ora per giungere a Roma verso sera, e verrà esposto alla venerazione dei fedeli  nella basilica di San Lorenzo al Verano, dove si svolgerà una veglia di preghiera per tutta la notte. Il giorno dopo, il Corpo del Padre verrà portato nella  parrocchia di San Salvatore in Lauro. In serata, in processione, raggiungerà  la meta principale del suo viaggio: la Basilica di San Pietro.

<<Nel grande tempio della cristianità si fermerà fino all’11 febbraio. In quei giorni, nel nome e nel segno della spiritualità di Padre Pio,  si svolgeranno varie cerimonie con la presenza del Papa: il 6 febbraio, udienza generale a tutti i Gruppi di preghiera di Padre Pio; il 9, una Concelebrazione Eucaristica  del Papa con i Frati minori cappuccini arrivati da  tutto il mondo; il 10, giorno delle ceneri, Papa Francesco conferirà a 1000 sacerdoti il “mandato  missionario della Misericordia”, cioè il compito di distribuire, con la predicazione e la Confessione, la “Misericordia divina” che, afferma Papa Francesco nella sua Bolla Pontificia “Misericordiae vultus”  “è  un mistero fondamentale della Fede”. “Questi sacerdoti”, scrive Papa Francesco “saranno, soprattutto, segno vivo di come il Padre accoglie quanti sono in ricerca del suo perdono. Saranno dei missionari della misericordia perché si faranno artefici presso tutti di un incontro carico di umanità, sorgente di liberazione, ricco di responsabilità per superare gli ostacoli e riprendere la vita nuova del Battesimo”.

L'urna con il corpo di Padre Pio. Nato il 25 maggio 1887, Padre Pio +¿ morto il 23 settembre 1968<<L’11 febbraio, in mattinata, il Corpo di Padre Pio lascerà Roma per continuare la sua missione in altre località del Sud Italia, in particolare  Pietrelcina, paese natale del Santo. Sosterrà a Piana Romana, il luogo dove il Padre  ricevette le stimmate invisibili nel settembre 1910,  e per due giorni si fermerà nella chiesa parrocchiale che frequentava da bambino. La mattina del 14 febbraio sarà a Benevento, città della sua ordinazione sacerdotale avvenuta il 10 agosto 1910.  Poi, sarà  a Foggia, dove visse alcuni mesi del 1916.  Il suo rientro a San Giovanni Rotondo è previsto per il giorno 15, ma, prima di riprendere il suo posto nella cripta del Santuario, rimarrà due giorni nella “Casa Sollievo della Sofferenza”, il grande ospedale da lui fondato e diventato uno dei più importanti d’Europa>>.

“E’ vero che, in vita, Padre Pio aveva previsto questo suo viaggio?”

<Si racconta che, il giorno 17 febbraio 1916, quando lasciò Pietrelcina, a chi gli chiedeva quando sarebbe tornato, rispose: “Ci vedremo tra 100 anni”. Forse era solo un modo di dire, ma, guarda caso, torna nel suo paese natale proprio 100 anni dopo essersene andato>>.

Dal 1916, quindi, Padre Pio non ha mai lasciato San Giovanni Rotondo.

<< Non esattamente. Il suo arrivo a San Giovanni Rotondo risale al settembre 1916. Appena arrivato, scrisse in una breve lettera ai genitori, affermando: “<<Sento di rimanere qui tantissimo tempo e di non allontanarmi mai””.

Chiesetta del convento dei Frati Cappuccini a San Giovanni Rotondo, dove Padre Pio and+¦ a vivere nel 1916<<Si sa che egli, nel maggio 1917, fece un viaggio a Roma, per accompagnare sua sorella Graziella che si faceva suora nella congregazione delle Brigidine. Sempre in quegli anni si recò a Napoli, per ragioni di servizio militare, ma erano viaggi brevissimi.  La sua residenza fissa rimase sempre  a San Giovanni. Come è noto, nel corso della sua vita ci furono molti tentativi di allontanarlo da san Giovanni. I suoi nemici, le persone che lo giudicavano un imbroglione, fecero di tutto perché venisse chiuso in un convento, all’estero, e non si parlasse più di lui. Cercarono di realizzare questo loro scopo scellerato con ogni mezzo, insistendo, per anni, e sollecitando interventi non solo presso le autorità ecclesiastiche, ma anche da parte delle autorità civili, del Ministero degli Interni, e ricorsero perfino a Mussolini in persona, ma non riuscirono mai nel loro intento. Benchè il Padre si dicesse sempre pronto a partire per fare la volontà dei superiori, ogni volta accadeva qualche cosa per cui i superiori non  riuscivano a dare quell’ordine.

<<Padre Pio amava il popolo di San Giovanni Rotondo. Si sentiva parte di quella città. In una lettera al Sindaco di San Giovanni scrisse: “E quale segno della mia predilezione per il popolo di San Giovanni Rotondo,  esprimo il mio desiderio che, ove i miei superiori non si oppongano, le mie ossa siano composte in un tran-quillo cantuccio di questa terra>>.

<<Quel desiderio si è realizzato. Padre Pio è vissuto e morto a San Giovani Rotondo. E nel suo nome, quella cittadina è diventata uno dei centri di spiritualità più importanti>>.

Tony Assante


PER APPROFONDIRE TI CONSIGLIAMO:

La passione di Padre Pio. Inchiesta con documenti inediti e segreti sulla persecuzione inflitta al Santo dalle gerarchie ecclesiastiche

di Renzo Allegri

Tutto ciò che riguarda Padre Pio è stato sviscerato dai mass media, soprattutto dopo la proclamazione della sua santità. Solo un aspetto della sua vita resta ancora in ombra: la persecuzione cui fu sottoposto da parte della Chiesa. Una persecuzione che rimane un enigma. Iniziata subito dopo la comparsa delle stigmate sul corpo del religioso, è durata, sempre più accanita, per il resto della sua vita e per diversi anni anche dopo la morte. Padre Pio visse in un continuo dissidio. Tremendo. Martirizzante. Furono molte le persone umane fallibili che all’interno della Chiesa cattolica, ebbero il compito di giudicare la sua vita, la sua condotta e i suoi fenomeni mistici, e che si sbagliarono clamorosamente. La cosa grave sta nel fatto che quelle persone erano ai vertici di vari dicasteri vaticani, in particolare il Sant’Uffizio, il supremo tribunale per la difesa della fede. “Dimenticare le sue sofferenze significa tradirlo” mi disse un giorno Fra Modestino, un confratello di Padre Pio, considerato, dopo la morte dello stigmatizzato, il suo erede. Non è possibile pensare Gesù senza croce; non è possibile pensare Padre Pio senza sofferenze. Questo libro intende soffermarsi soprattutto sul racconto di queste sofferenze “morali e spirituali”. E sulle persecuzioni che ne furono causa e che il religioso subì per tutta la vita. Il racconto si basa su migliaia di documenti conservati nell’Archivio segreto del Vaticano e in quello del Sant’Uffizio…

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La passione di Padre Pio

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3Un libro che, con decine di documenti, alcuni inediti, esplora il “giallo” della  lunga  “persecuzione” cui Padre Pio fu sottoposto in vita, e che coinvolse anche illustri esponenti ecclesiastici.

Di Tony Assante

Il viaggio delle reliquie mortali di San Pio da Pietrelcina a Roma per il “Giubileo della Misericordia”, ha sollevato fin dall’inizio e continua a sollevare un interesse grandissimo. Giornali, televisioni e radio hanno dato ampio spazio all’evento. La gente ha risposto con entusiasmo e con affetto  incondizionati che, però hanno dato fastidio a certi “illuminati”.   Molte sono state le critiche, dirette o implicite. I difensori del “bene pubblico laico” si sono impegnati in analisi, commenti, valutazioni sull’opportunità di una simile manifestazione, sui costi e  sull’impiego massiccio di  forze dell’Ordine pubblico per salvaguardare l’incolumità di una salma. Ironizzando, ma anche con valutazioni profondamente offensive nei confronti del Santo e di migliaia e migliaia di cittadini credenti, riprese dei “media” anche all’estero. .   “Altro che Isis, il Medioevo è già qui grazie a Padre Pio”, ha scritto un giornale.  E un noto personaggio ha affermato in un’intervista: “Padre Pio è  un uomo marketing della religione… i cui resti mortali sono una mummia che fa esteticamente schifo” ed ha paragonato i fedeli del religioso ai seguaci del nazismo.

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Padre Pio infiamma le folle ed irrita piccole minoranze di agnostici che si ritengono depositari della sapienza e della verità. E’ sempre stato un “segno di contraddizione”, anche quando era in vita.

Su questo argomento è uscito un magnifico libro dal titolo “La passione di padre Pio”, scritto da Renzo Allegri e pubblicato da Mondadori. Allegri è un giornalista e scrittore noto ed esperto di Padre Pio. Ha  pubblicato una decina di libri sul Santo di Pietrelcina,  tutti editi da Mondadori, e tradotti in varie lingue. In  questo ultimo volume affronta un argomento particolare: le sofferenze di Padre Pio. Non quelle provocate dalle stimmate, dalle malattie, dalle febbri che arrivano fino a 50 gradi, ma le sofferenze morali, quelle che gli furono inflitte “in famiglia”, da  appartenenti alla sua stessa Chiesa.

2E’ un aspetto della vita di Padre Pio costellato da diatribe durate decenni. Già nel dicembre 1968, tre mesi dopo la morte del Padre, il cardinale Giacomo Lercaro, grande amico di Padre Pio, aveva affermato in una conferenza commemorativa: <<Di lui si parlò e si scrisse; lo si condannò e lo si derise; ed gli tacque….Ma ad addolorarlo nel profondo, a farlo agonizzare come il Salvatore nell’Orto degli Ulivi,  era il fatto che egli non tanto “per” la Chiesa soffriva…  quanto il fatto che “dalla” Chiesa soffriva>>.

Una storia mai chiarita apertamente. Gli autori di ispirazione cattolica tendono a ignorarla. Anzi, alcuni affermano che non è mai esistita. Dicono che si tratta di una  invenzione di giornalisti in cerca di scandali. Altri, sul versante opposto, la cavalcano ingrandendola, accusando non tanto le persone responsabili dei fatti accaduti, ma la Chiesa in generale, il Papa, la Religione: sostengono che Padre Pio era un imbroglione, che si procurava le stimmate con acidi e coltelli  e, richiamando appunto i documenti di condanna emanati dalle autorità ecclesiastiche, affermano che la stessa Chiesa lo riteneva tale, cioè un imbroglione, ma che, dopo la sua morte, vedendo le folle che accorrevano sulla sua tomba portando montagne di offerte, hanno cambiato idea e lo hanno proclamato santo. Ragionamenti farneticanti, ma sempre in corso, anche in questi giorni di Giubileo.

Il libro di Renzo Allegri affronta questo  delicato argomento e lo analizza  alla luce di centinaia di documenti molti dei quali inediti, rimasti sepolti per anni negli archivi. Il Padre Pio che esce da questo libro è un faro di chiarezza, di coerenza, di integrità, di amore per la Chiesa, di santità granitica. E la documentazione che l’autore propone, smaschera le potenti lobbies che tentarono con ogni mezzo di distruggere questo gigante della santità. Lobbies che avevano alcuni esponenti anche  nelle alte gerarchie ecclesiastiche.

1<<Oggi non è più possibile negare la persecuzione cui Padre Pio fu sottoposto e che, come affermava il cardinale Lercaro, “lo fece sanguinare come il Salvatore nell’Orto degli ulivi”>>,  afferma Renzo Allegri. <<I documenti che provano questa incredibile persecuzione, provengono dall’Archivio segreto del Vaticano.  Nel 2007, Papa Ratzinger ha reso possibile la consultazione di quell’archivio fino al 1939. Quindi, è possibile vedere, consultare, controllare tutte le disposizioni emesse dai vari Dicasteri Vaticani, in particolare dal Sant’Uffizio, fino a quella data, cioè per tutto il periodo della “prima grande”  persecuzione a Padre Pio, che era iniziata nel 1919>>

Che genere di disposizioni?

<<Dichiarazioni dottrinali, interventi disciplinari, indicazioni ed esortazioni pastorali, e una enorme quantità di lettere, relazioni, denunce provenienti dei “nemici” di padre Pio.

<<Tutto cominciò con le prime indiscrezioni riguardanti le stimmate apparse sul corpo del giovane Padre Pio, pubblicate sui giornali nel giugno 1919. Quelle piaghe richiamavano la Passione e Morte di Gesù. Un evento sconcertante e i giornali se ne impossessarono con avidità. Si verificarono subito anche delle guarigioni prodigiose, attribuite alle preghiere del religioso, e l’interesse popolare divenne immenso.  In pochi mesi, San Giovanni Rotondo, che era una cittadina difficile da raggiungere, divenne meta di migliaia e migliaia di pellegrini, molti dei quali malati.

<<Si scatenarono subito anche le polemiche. Alcuni videro nell’accorrere delle folle una specie di fanatismo pericoloso, Cominciarono a condannare, a inviare denunce in Vaticano e  iniziò quella battaglia tra “fedeli e devoti” di padre Pio e suoi “nemici dichiarati” che continuò per tutta la vita del religioso e anche dopo. Ancora oggi le critiche non si sono assopite>>.

5Oggi Padre Pio è considerato dalla Chiesa uno dei più grandi santi  della storia: come è possibile che quando era in vita abbia subito una persecuzione del genere?

<<Difficile dare una risposta. Ma è accaduto. Padre Pio è morto portandosi nella tomba cinque condanne del Sant’Uffizio mai ritrattate. Durante la sua vita fu oggetto di continue accuse che provocarono 70 “visite apostoliche”, cioè 70 “inchieste  giudiziarie vaticane” che si chiusero sempre con condanne e punizioni disciplinari. I vari  processi per la beatificazione dimostrarono che era innocente, vittima di feroci calunnie.
Un famoso teologo un giorno mi disse:  “Il Demonio è in grado di conoscere anche il futuro. Sapeva che Padre Pio era destinato a operare un bene immenso nella Chiesa. Per questo tentò in tutti i modi di distruggerlo, creando una trappola infernale, nella quale sono caduti anche esponenti  della Chiesa>>.

E Padre Pio?

<<Da autentico santo, sopportò tutto senza mai lamentarsi. A volte piangeva per il dolore, ma ripeteva: “La Chiesa è madre anche quando percuote”>>.

Tony Assante


 

PRESENTAZIONE DEL LIBRO:

Tutto ciò che riguarda Padre Pio è stato sviscerato dai mass media, soprattutto dopo la proclamazione della sua santità. Solo un aspetto della sua vita resta ancora in ombra: la persecuzione cui fu sottoposto da parte della Chiesa.

Una persecuzione che rimane un enigma. Iniziata subito dopo la comparsa delle stigmate sul corpo del religioso, è durata, sempre più accanita, per il resto della sua vita e per diversi anni anche dopo la morte. Padre Pio visse in un continuo dissidio. Tremendo. Martirizzante.

Furono molte le persone umane fallibili che, all’interno della Chiesa cattolica, ebbero il compito di giudicare la sua vita, la sua condotta e i suoi fenomeni mistici, e che si sbagliarono clamorosamente. La cosa grave sta nel fatto che quelle persone erano ai vertici di vari dicasteri vaticani, in particolare il Sant’Uffizio, il supremo tribunale per la difesa della fede.

“Dimenticare le sue sofferenze significa tradirlo” mi disse un giorno Fra Modestino, un confratello di Padre Pio, considerato, dopo la morte dello stigmatizzato, il suo erede. Non è possibile pensare Gesù senza croce; non è possibile pensare Padre Pio senza sofferenze.

Questo libro intende soffermarsi soprattutto sul racconto di queste sofferenze “morali e spirituali”. E sulle persecuzioni che ne furono causa e che il religioso subì per tutta la vita.

Il racconto si basa su migliaia di documenti conservati nell’Archivio segreto del Vaticano e in quello del Sant’Uffizio. Ma anche documenti degli archivi dell’Ordine dei Frati Cappuccini, dei Cappuccini della Provincia di Foggia e di archivi privati di laici che ebbero ruoli estremamente importanti in questa vicenda. Molti di questi sono inediti.

Renzo Allegri

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La storia di Giovanna Villa

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Giovanna Villa in una della ultime fotografieUna avventura editoriale fatta in casa, con una rivistina dedicata alla Madonna di Medjugorje che raggiungeva  410 mila copie il mese.

Giovanna Villa Bertorello era una signora serena e silenziosa. Visse lasciandosi illuminare dal Vangelo e guidare dalla Vergine Maria.

E’ stata una grande “Missionaria” della Madonna nelle sue manifestazioni a Medjugorje.

Con il marito,  il dottor Vitale Bertorello, commercialista,  andò a visitare quel luogo la prima volta nel 1984, tre anni dopo l’inizio delle apparizioni.

Tutti e due ne rimasero affascinati e decisero di dedicare il loro tempo libero a far conoscere quanto avveniva in quel piccolo villaggio bosniaco.

Fondarono, a Torino, dove vivevano, un Gruppo di Preghiera. Per divulgare tra gli amici le notizie di Medjugorje si servivano di un foglietto dattiloscritto.

Era compilato con tale amore e cura da interessare moltissime persone, anche estranee al loro Gruppo di preghiera.

Per soddisfare le richieste crescenti, trasformarono il dattiloscritto prima in un volantino ciclostilato, poi in una rivistina stampata a colori, con varie fotografie. E quella rivistina, fatta in casa, organizzata con una grafica elementare, trasudante stupore e gioia come i disegni dei bambini,  cresceva, cresceva.

Giovanna era anche degli animali.Un giorno, Giovanna e suo marito Vitale vennero a trovarmi  al giornale dove lavoravo. Mi parlarono di Medjugorje, della loro fede nella Madonna e di quella curiosa avventura editoriale che stava scoppiando tra le loro mani inesperte.

Mi chiesero se accettavo di interessarmi del loro giornalino, che era diventato una pubblicazione importante, con un numero di lettori crescente di settimana in settimana.

Mi parlavano di migliaia di copie il mese. Ero stupito. Non potevo credere a notizie del genere riguardanti una pubblicazione fatta in casa.

Ma accettai volentieri perché Giovanna e Vitale erano due persone simpatiche e trasparenti come l’acqua.

Per nove anni fui il direttore di quel giornalino. Non si sa proprio per quali ragioni misteriose, ma  quanto Giovanna e suo marito mi avevano detto al primo incontro corrispondeva al vero.

Quella piccola rivistina, con quel suo aspetto grafico fanciullesco, ma che raccontava storie e vicende serie e molto importanti, sembrava fatata. La gente seguiva con entusiasmo e ad ogni numero bisognava aumentare la tiratura.

Arrivammo a 410 mila copie il mese. Una tiratura impressionante, che attirò l’attenzione perfino dei grandi giornali.

Il quotidiano “La Stampa” di Torino dedicò alla rivistina un articolo, chiamandola scherzosamente “un miracolo della Madonna”.

Copertina di un numero del mensile mariano Medjugorje TorinoE quel “miracolo” editoriale si realizzava in un piccolo ufficio, al pianoterra della casa dove abitava Giovanna. Ufficio nel quale  con Giovanna lavoravano solo alcune sue amiche.

Non era un giornalino ambito dai lettori per guardare le immagini. E neppure perchè, negli scritti, offriva delle curiosità, degli scoop, delle informazioni sensazionali, che colpiscono la fantasia.

Era una pubblicazione che voleva trasmettere qualche piccola idea utile a richiamare l’attenzione su quelle verità che stanno alla base delle “realtà imperiture”, quelle “che vanno aldilà del tempo e della storia”.

Giovanna, rimasta vedova, ha consumato anni della sua vita in quella avventura editoriale domestica tanto curiosa e tanto interessante.

Ad un certo momento, il peso degli anni si è fatto sentire, ed ha deciso di mettersi in pensione. Ora è tornata alla casa del Padre.

Renzo Allegri

La profezia delle “Sacre spine”

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125 MARZO: LA PROFEZIA DELLE “SACRE SPINE” CHE FIORISCONO

Quando il Venerdì santo, giorno della morte dei Gesù, cade il 25 marzo solennità della Annunciazione, dalle reliquie della Passione di Cristo arrivano misteriosi segni – Grande attesa a San Giovanni Bianco e a Andria – Messaggi profetici o illusioni ottiche?

Di Renzo Allegri – Foto di Nicola Allegri

Il Venerdì Santo quest’anno cade il 25 marzo. La Pasqua è una festa “mobile”, la sua collocazione in calendario varia di anno in anno perché è legata al ciclo lunare. E variano anche tutte le ricorrenze pasquali.

Ma il 25 marzo è anche il giorno nel quale la Chiesa celebra la Solennità dell’Annunciazione, ricorrenza che ricorda l’annuncio dell’Angelo Gabriele a Maria e il mistero del concepimento di Gesù. Quindi, il 25 marzo di quest’anno la Chiesa ricorda la Passione e Morte di Gesù e insieme l’inizio della sua esistenza in questo mondo.

Secondo un’antica tradizione, quando le due ricorrenze riguardanti l’inizio e fine della vita dell’Uomo-Dio, si verificano nello stesso giorno, è come se nel mondo si sprigionasse un’energia spirituale potente al punto da creare misteriosi sconvolgimenti.

2Questa coincidenza è, però, molto rara. Nel secolo scorso si è verificata tre volte: nel 1910, nel 1921 e nel 1932. In questo secolo, si è verificata nel 2005, si ripeterà il 25 marzo, e poi bisognerà attendere il 2056. Il 25 marzo è alle porte e, in tutti coloro che conoscono questa tradizione, vi è grandissima attesa.

La fenomenologia misteriosa caratterizzante la coincidenza delle due ricorrenze citate, è legata soprattutto alle reliquie della Corona di Spine che fu messa sul capo di Gesù durante il processo a Gerusalemme. Le spine di quella Corona sono sparse in giro per il mondo. E quando il Venerdì Santo cade il 25 marzo, quelle spine soffrono, sudano sangue, si animano come se fossero vive. Un fenomeno misterioso che la gente indica con una delicatissima parola poetica: “fioritura”. La spina di legno, risalente secondo la tradizione a 2000 anni fa, si ravviva e si colora di un liquido sanguigno. “Fiorisce” dice la gente con devozione.

Fin dai primi secoli del Cristianesimo quelle Spine godevano di una particolare venerazione perché erano fonte di guarigioni miracolose e su di esse si osservavano fenomeni fisici strani e inspiegabili. Gregorio di Tours, vescovo francese del secolo sesto, nel suo libro “De gloria martyri, riferisce che la Corona di spine venerata in Gerusalemme, anche se era vecchia di 500 anni, appariva come “composta da rovi appena colti”.

San Paolino da Nola, all’inizio del quinto secolo, cita tra gli oggetti di grande venerazione “le spine con le quali il Nostro Salvatore venne incoronato”. Cassiodoro, famoso uomo politico e letterato, in un suo scritto nella seconda metà del secolo sesto, cita quelle reliquie affermando che “sono la gloria di Gerusalemme”.

3Forse proprio per quegli speciali “segni” che si verificavano, la Sacre Spine divennero oggetto di regali importanti. L’imperatore Giustiniano I, a metà del secolo sesto, regalò a San Germano, vescovo di Parigi, una delle Spine della Corona di Cristo. L’imperatrice Irene, nel 798, ne regalò alcune a Carlo Magno. Nel l’887, Carlo il Calvo, regalò una della Spine ricevute da Carlo Magno alla chiesa di Compiègne, dove era sepolto il corpo di San Cornelio Papa martire.

Nel 1063 la Corona venne portata a Bisanzio e nel 1238 fu acquistata dal re di Francia, San Luigi IX, il quale per ospitarla degnamente fece erigere uno dei più bei gioielli dell’arte gotica, la “Sainte Chapelle”. In quella Chiesa la reliquia rimase fino alla Rivoluzione francese, poi ebbe varie altre peregrinazioni, per approdare, alla fine, a Notre Dame dove ancora si trova.

Le Sacre Spine continuarono ad essere oggetti di prestigiosi regali anche da parte dei vari regnanti francesi, e così della Corona primitiva a Parigi, rimase solo la struttura portante che si vede ora.

Gli studiosi hanno catalogato oltre 700 Sacre Spine, sparse in giro per il mondo. Molte sono fasulle, e classificate “reliquie di seconda categoria”, in quanto non sono state tolte dalla Corona, ma solo appoggiate su di essa, quindi diventate reliquie per contatto.
In Italia ce ne sono parecchie, conservate in chiese e santuari. A tutte vengono attribuiti poteri miracolosi. Ma sono soprattutto due quelle diventate famose per i fenomeni che si verificano quando il Venerdì Santo cade il 25 marzo: quella conservata nella Cattedrale di Andria in Puglia e quella che si trova a San Giovanni Bianco in provincia di Bergamo.

Ad Andria, la “Sacra Spina” è conservata in un magnifico reliquiario nella cattedrale. Venne donata alla città pugliese dalla contessa Beatrice d’Angiò, figlia di Carlo II, nel 1308, in occasione delle sue nozze con Bertrando Del Balzo figlio d’Ugo e conte d’Andria.

A San Giovanni Bianco, paese della Val Brembana, in provincia di Bergamo, la Sacra Spina è conservata nella chiesa parrocchiale. Vi fu portata nel 1495 da Vistallo Zignoni, un soldato di ventura al servizio della Serenissima. Durante la battaglia di Fornovo del 6 luglio 1495 contro l’esercito del re di Francia Carlo VIII, Vistallo Zignoni fece prigioniero il segretario del re e si impadronì di un cofanetto contenente numerose reliquie. Il cofanetto fu poi consegnato come bottino di guerra al Senato Veneto ma prima di consegnarlo, Zignoni prelevò una di quelle reliquie, una “Sacra Spina”, e ne fece dono al parroco di San Giovanni Bianco. Da quel momento la Sacra Spina è diventata il centro di una grande devozione in tutta la valle, devozione che ancora oggi è fortissima.

4Il 25 marzo 2005, la due reliquie di Andria e di San Giovanni Bianco furono sottoposte a un rigoroso controllo. Il vescovo di Andria, monsignor Raffaele Calabro, aveva nominato una Commissione teologica e una Commissione scientifica, in modo che il fenomeno potesse essere seguito con la massima attenzione. Della Commissione scientifica facevano parte anche cinque medici. Erano inoltre stati allestiti due schermi giganti in piazza Duomo e in Piazza Catuma, in modo che la gente potesse seguire il fenomeno in diretta-tv.

Il fenomeno si verificò puntualmente. Il giorno dopo, 26 marzo, il Vescovo di Andria confermò ufficialmente ai fedeli radunati in cattedrale che il prodigio si era verificato e diede lettura pubblica del verbale notarile. Volle poi dedicare all’evento un numero speciale del settimanale diocesano, “Insieme”, riportando la cronaca dei fatti, i verbali dei mutamenti osservati sulla Sacra Spina dai componenti della Commissione scientifica, documentando il tutto con numerose fotografie. In un articolo da lui firmato, monsignor Calabro ricordò con parole commosse la propria esperienza diretta. Scrisse tra l’altro: <<Io stesso sono stato testimone oculare del momento più sconvolgente, che è durato più di tre ore, quello dell’’ “accartocciamento” (per usare un termine popolare) della Sacra Spina, quasi fosse non una spina normale, ma uno stelo vegetale percorso da una potenza misteriosa, simile a un piccolo “sisma”>>.

A San Giovanni Bianco il fenomeno fu meno appariscente. Nei giorni precedenti, i giornali locali avevano ricordato con enfasi quanto era accaduto nel 1932, con oltre 200 mila pellegrini, e c’era quindi un’ attesa spasmodica. Per questo la popolazione rimase un po’ delusa. Ma il fenomeno fu chiaro e inconfondibile, come risulta dagli atti della Commissione scientifica istituita dal vescovo, della quale facevano parte monsignor Lino Belotti, vescovo ausiliario di Bergamo, don Giuseppe Minelli, parroco del paese, la dottoressa Barbara Cancelli, medico legale, il dottor Marco Valle, direttore del Museo di Scienze Naturali di Bergamo e don Goffredo Zanchi, professore di Storia nel Seminario di Bergamo.

5Anzi, il fenomeno a San Giovanni Bianco si protrasse più del solito. <<La Sacra Spina ha cambiato colore anche il 2 aprile, giorno della morte di Giovanni Paolo II>>, mi disse allora l’ingegner Giovanni Milesi, studioso della Sacra Spina e che era assessore alla cultura del comune. <<Proprio mentre Giovanni Paolo II era in agonia, la spina, osservata da molti testimoni, ha assunto una tonalità granata che nella domenica del 3 aprile si è fatta ancora più intensa.>>.

A San Giovanni Bianco come ad Andria sono al lavoro le nuove Commissioni scientifiche che, armate di sofisticate apparecchiature elettroniche terranno le Sacre Spine sotto controllo il 25 marzo e nei giorni successivi.

Dalle cronache del passato, la presenza del “segno” sembra incontestabile. E soprattutto proprio perché il fenomeno non si verifica regolarmente, in una data precisa, ma solo in circostanze particolari e rare, che cadono sempre in date diverse. Vedremo se anche in questo nostro tempo scettico e conturbato, il “segno” arriva e la Sacre Spine “fioriscono”..

Renzo Allegri

Il “segno” delle Sacre spine

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1Il prodigio si è verificato puntuale, clamoroso e indiscutibile
Immortalato da foto, filmati e riprese televisive macro e in alta definizione, documenti “fisici” che non possono subire suggestioni

Di Renzo Allegri

Il 23 marzo ho pubblicato, su “Il Faustino”, un articoletto dal titolo “La profezia delle Sacre Spine”. Scrivevo di un fatto misterioso, razionalmente inspiegabile, ma dai profondi significati spirituali, che, secondo una antica tradizione, avrebbe potuto verificarsi due giorni dopo, il 25 marzo. E in effetti, poi, puntualmente si è verificato, richiamando grande interesse, grande curiosità, anche sui giornali e alla televisione. E le Poste hanno dedicato all’evento un francobollo.

L’antica tradizione, cui mi riferivo, sostiene che quando il Venerdì Santo cade il 25 marzo, sulla terra si scatena una energia potente in grado di provocare misteriosi sconvolgimenti. E questo perché le due ricorrenze, Venerdì Santo e 25 marzo, riguardano due momenti fondamentali della vita di Gesù: la morte in croce e il concepimento, annunciato a Maria dall’Angelo Gabriele. L’inizio, quindi, e la fine della vita di Gesù in questo nostro mondo. Principio e fine dell’evento più stupefacente che si possa immaginare, accaduto nella storia dell’Universo.

La Pasqua viene celebrata anche in ambito cattolico seguendo il ciclo lunare, come facevano gli ebrei, ed è quindi una data “mobile” all’interno del nostro calendario fisso. E con essa sono “mobili” le altre ricorrenze religiose che hanno a che fare con la Pasqua. Mentre, invece, l’Annunciazione dell’Angelo a Maria, che accetta di diventare la Madre del “Figlio di Dio”, è fissata, dalla liturgia cattolica, al 25 marzo, nove mesi prima del Natale. E quel “Sì” di accettazione di Maria, segna l’inizio della vita terrena di Gesù, il suo concepimento.

2La possibilità che le due ricorrenze coincidano nello stesso giorno, è rarissima. Nel secolo scorso è accaduto nel 1910, nel 1921 e nel 1932. In questo secolo, nel 2005 e nel 2016. La prossima coincidenza si verificherà nel 2157, cioè tra 141 anni.

In quel mio scritto avevo evidenziato uno dei “segni” più conosciuti che, lungo il corso dei secoli, sono stati osservati quando le due ricorrenze coincisero, e riguarda alcune reliquie della Passione e Morte di Cristo, in particolare le spine che, sempre secondo la tradizione, appartennero alla “Corona” che venne posta sul capo di Gesù durante il processo della sua condanna a morte.

Quella Corona fu oggetto di venerazione fin dai primi secoli del Cristianesimo. E poi, con il passare degli anni, sempre a scopo di venerazione, venne smembrata in piccole reliquie che furono disperse in giro per il mondo. Alcune sono conservate anche in chiese italiane. Due in particolare mostrano segni prodigiosi quando il Venerdì Santo cade il 25 marzo. Una è conservata nella cattedrale di Andria e l’altra nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Bianco in provincia di Bergamo. Quando si verifica la coincidenza delle due date, quelle spine soffrono, si animano come se fossero vive, si coprono di stille rossastre che sembrano gocce di sangue. Un fenomeno che la gente indica con una delicatissima parola poetica: “fioritura”.

Io ho scritto quell’articolo su “Il Faustino” tre giorni prima dell’evento. Ricordavo la storia della reliquia e le manifestazioni del passato. Nel 1932 i mutamenti apparsi sulla Sacra Spina conservata a San Giovanni Bianco furono così clamorosi da richiamare, in una settimana, 200 mila visitatori.
Nel passato, il fenomeno dei mutamenti veniva osservato a occhio nudo e con poveri strumenti. Ma con il progresso scientifico si è ricorsi a mezzi tecnici sempre più sofisticati.

Nel 2005, i Vescovi della rispettive diocesi, Andria e Bergamo, formarono delle commissioni di esperti in vari settori, incaricandole di monitorare le reliquie. A San Giovanni Bianco il fenomeno si verificò in ritardo sulla data e in modo contenuto. Mentre fu clamoroso ad Andria, dove per volere del vescovo erano stati istallati anche mega schermi nelle piazze adiacenti la Cattedrale in modo che il fenomeno potesse essere seguito anche dalla gente. In quell’occasione, il vescovo, monsignor Raffaele Calabro, scrisse: “<<Io stesso sono stato testimone oculare del momento più sconvolgente, che è durato più di tre ore, quello dell’’ “accartocciamento” (per usare un termine popolare) della Sacra Spina, quasi fosse non una spina normale, ma uno stelo vegetale percorso da una potenza misteriosa, simile a un piccolo “sisma”>>.

Francobollo sacra spinaAlla luce di quanto era accaduto nel 2005, nelle settimane che precedettero il 25 marzo scorso l’attesa era evidentemente forte. Spasmodica ed entusiastica ad Andria; contenuta e quasi silenziosa a San Giovanni Bianco, dove pesava la debole manifestazione del 2005. Ma in tutte e due le diocesi, i rispettivi vescovi hanno nominato Commissioni di esperti e allestito impianti di osservazione scientifica. E il 25 marzo, il fenomeno si è puntualmente manifestato, tra il tripudio e la commozione dei fedeli. E questa volta in modo eclatante soprattutto a San Giovanni Bianco.

Il Vescovo di Andria, monsignor Raffaele Calabro, ha dato l’annuncio alle 17.30 del 25 marzo, quando il prodigio era in corso. “In questa circostanza ho il piacere di annunciare a voi tutti in maniera solenne che il miracolo ha avuto inizio”, ha affermato davanti alla folla che gremiva la cattedrale. Mentre il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, ha atteso il giorno successivo per rendere pubblico il suo giudizio: “Con grande gioia posso annunciare che il segno si è manifestato”.

La gioia dei fedeli è continuata nei giorni successivi e sta continuando ancora. Mi sono recato a San Giovanni Bianco in un giorno feriale, otto giorno dopo che si era manifestato il prodigio, e alle undici del mattino la chiesa era zeppa di gente in preghiera. Il 3 aprile, a San Giovanni Bianco si è tenuto una processione cui hanno partecipato oltre 5000 devoti e giovedì 7 aprile la Rai ha programmato un collegamento diretto con la trasmissione “Uno mattina”.

Processione Sacra SpinaLo stesso entusiasmo e afflusso di pellegrini si è avuto e si continua a riscontrare ad Andria. Per ricordare quell’evento, le Poste Italiane hanno emesso un francobollo da 0.95 euro, sul quale oltre alla data 25 marzo 2016 si vede il grafico della Regione Puglia e del reliquiario contenente la Sacra Spina.

Certo, il fatto ha suscitato anche discussioni critiche. E’ evidente che i non credenti ritengano che tutto sia falso, ridicolo, inventato. Ma sono parole al vento perché il fatto è stato filmato, fotografato, ripreso della telecamere con obiettivi macro e di alta definizione, e gli strumenti meccanici non vanno soggetti a suggestioni di nessun genere. I non credenti potranno fare ipotesi sul “perché” un evento del genere si è manifestato, e “quale” possa essere il suo preciso significato, ma non è possibile metterne in dubbio la reale manifestazione.

Renzo Allegri

La miniera diventa museo

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1Tra le innumerevoli iniziative per celebrare il primo maggio, “Festa dei lavoratori”, la più originale e saggia arriva da Dossena, piccolo centro della Val Brembana <<Abbiamo scelto di festeggiare nelle miniere, dove i nostri antenati hanno lavorato per secoli e dove molti sono morti>> , dice Fabio Bonzi, sindaco di Dossena. <<Anzi, per tener viva la memoria dei nostri avi, stiamo trasformando le miniere in un museo>>.

Di Renzo Allegri – Foto di Nicola Allegri

Il Primo maggio si avvicina. Tutto il mondo si prepara a celebrare la “festa del lavoro” con iniziative varie. Una delle più singolari e sorprendenti, arriva da un piccolo centro montano, Dossena, nella Val Brembana, in provincia di Bergamo. La comunità di Dossena ha deciso di festeggiare il “Primo maggio 2016” nelle miniere della zona, dove per secoli, generazioni e generazioni di abitanti hanno trascorso gran parte della loro esistenza.

Dalle notizie che si leggono sui giornali, sembra che quest’anno ci sia un’attesa più nervosa per la Festa del Primo maggio. Soprattutto nelle metropoli. C’è fretta, impazienza. Voglia di dimenticare. Festeggiare per dimenticare. Per scrollarsi di dosso, almeno per un giorno, gli incubi della crisi economica, delle disoccupazioni forzate, dei fallimenti aziendali, degli imprevedibili licenziamenti, dell’aumento delle tasse, cioè di quei veleni che da alcuni anni ci amareggiano la vita. I politici lanciano messaggi di ripresa, ai quali nessuno crede.

2Da settimane i media parlano del famoso concerto del Primo Maggio a Piazza San Giovanni a Roma, organizzato dai tre sindacati confederati italiani. Una consuetudine che si ripete dal 1997 e richiama spettatori da tutta Italia. E’ indicato con il termine pomposo di “evento” e verrà trasmesso in diretta TV. Si conosce già tutto dell’evento: programma, presentatori e l’ interminabile elenco di artisti che si alterneranno sul palco per 24 ore di fila.

Corrono informazioni anche sui concertoni celebri di Taranto, di Milano, e di altre metropoli che hanno una consolidata tradizione in questo settore.

In pratica, tutte le amministrazioni delle città, piccole e grandi, hanno elaborato programmi di svago, perché l’atmosfera è grigia ovunque. La “festa” deve, perciò, essere “chiassosa” più che mai, deve richiamare folle nelle piazze, dove i singoli abbiano l’impressione di non essere allo sbando.

Dossena, invece, per celebrare la festa del lavoro, ha scelto un programma fuori dal coro. Un programma di memoria, di ricordi, di riflessioni, di sentimenti da vivere nelle miniere del territorio che furono per secoli il luogo dell’unico lavoro per quella gente di montagna.

Un lavoro poco poetico, anzi spesso drammatico, ma pur sempre lavoro, che permetteva di vivere.

<<Tutte le nostre famiglie discendono da minatori>>, dice il sindaco del paese, Fabio Bonzi, 33 anni. <<E per questo mi sembra che il luogo più giusto per la nostra festa del lavoro sia proprio la miniera>>.

3Le miniere di Dossena e dei paesi confinanti, hanno un’origine che risale a circa 1500 anni prima di Cristo. Sono tra le più antiche che si conoscono. L’insediamento demografico fu originato dai minatori. Per secoli e secoli, fino a metà del Novecento, il lavoro in miniera fu l’unico per gli abitanti di Dossena.

Il sottosuolo roccioso della zona è ricco di minerali quali blenda, calamina, galena e fluorite, la cui utilità era nota fin dall’età del bronzo. L’estrazione di quei minerali è sempre stata estremamente faticosa. Soprattutto nei secoli antichi, quando non c’erano gli utensili adatti. Lo strato minerario era incastrato nella roccia. Il minatore scavava cunicoli stretti, che permettevano il passaggio di una sola persona per volta sdraiata. Lo stretto budello veniva via via allargato fino a diventare galleria.

Lavoro disumano, cui erano costretti, senza possibilità di scelta, i capifamiglia. Lavoro massacrante. Numerosi minatori restavano vittime di incidenti e crolli; altri, erano stroncati in giovane età dalla “silicosi”, malattia respiratoria provocata da inalazione di particelle di silice cristallina, e lasciavano giovani vedove, bambini orfani, destinati a una esistenza di stenti.

La comunità di Dossena, pur non rinunciando allo spirito gioioso costitutivo della festa del primo maggio, ha scelto una celebrazione impegnata. Del lavoro ha voluto ricordare anche i lontani aspetti drammatici, le tragedie che ha provocato soprattutto quando era svolto in condizioni di estrema difficoltà.
<<Nel sottosuolo del nostro territorio ci sono circa 27 chilometri di cunicoli scavati nella roccia.>>, dice Walter Balicco assessore del Comune di Dossena. <<Le nostre miniere, che risalgono all’età del bronzo, ebbero un grande incremento sotto gli Etruschi e durante l’Impero romano. Sono rimaste in funzione praticamente fino alla metà del secolo scorso. Tutte le nostre famiglie hanno avuto qualche antenato che ha consumato la sua esistenza nelle miniere. Tra i nostri anziani, ci sono diverse persone che, da giovani, hanno lavorato in quei tunnel. Per questo, abbiamo deciso che la nostra festa del lavoro doveva essere celebrata in miniera>>.

4<<Le miniere sono un fondamentale punto di riferimento della nostra storia e della nostra cultura>>, spiega ancora Fabio Bonzi. <<Abbiamo deciso di recuperarle, non per rimetterle in attività, ma per trasformarle in un luogo della memoria, del ricordo, in un vero e proprio museo.

<<Il progetto lo abbiamo messo a fuoco un paio di anni fa, e abbiamo cominciato a realizzarlo subito. Abbiamo liberato l’ingresso principale del complesso minerario, ripulito e messo in sicurezza 850 metri di tunnel, che sono visitabili. Stiamo raccogliendo tutti i reperti possibili atti a illustrare la storia di quelle miniere. Ne abbiamo trovati di antichissimi. Raccogliamo anche testimonianze più vicine a noi, come vecchie fotografie, racconti diretti, scritti, utensili eccetera.

Il progetto prevede che dentro la miniera vengano esposti tutti questi reperti, in modo che il visitatore possa farsi un’idea concreta del lavoro, di come veniva svolto.

<<Queste miniere, con i loro quasi 40 secoli di storia, costituiscono un patrimonio umano e culturale di inestimabile valore. Le pareti dei cunicoli sono intrise del sudore e del sangue dei nostri antenati. Non vogliamo che questa parte della nostra storia vada dimenticata>>.

<<Il progetto del Museo è condiviso da tutta la popolazione>>, spiega l’assessore Walter Balicco. <<I lavori finora eseguiti, sono frutto di volontariato. Gli iscritti alla varie associazioni, alpini, fanti, vigili del fuoco, pensionati, precari, tutti si sono prestati gratuitamente. Siamo in trattative con la Regione Lombardia per avere degli aiuti e far procedere il progetto con maggior celerità. Ma ciò che abbiamo già realizzato costituisce un sito che affascina i visitatori. La zona è lontana un paio di chilometri dall’abitato. Si raggiunge attraverso una bella strada, in parte asfaltata, che attraversa macchie boschive e di pascoli. Un paesaggio incantevole>>.

5Il programma del prossimo primo maggio prevede visite al tratto di miniere già recuperato e messo in sicurezza, che verranno fatte a gruppi, sotto la guida di esperti appartenenti alla “Associazione miniere di Dossena”. Mentre il “Gruppo Giovani Dossena”, tutti volontari, curano un “tour gastronomico”, a tappe, per la degustazione di formaggi, vino, salumi, e altre tipiche specialità della Valle, esposte in un mercatino itinerante dai produttori locali.

A mezzogiorno, pranzo del minatore a base di polenta. Ore 15, concerto in miniera del Coro Brigata Alpina Orobica, uno dei complessi vocali di canti di montagna più famosi, costituito rigorosamente da ex alpini.

Spettacolo imperdibile. A sera, cena convenzionata nelle trattorie del paese.

Renzo Allegri


La miniera diventa museo was first posted on aprile 26, 2016 at 2:24 pm.
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